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FESTIVAL DI CINEMA

FEFF22: uno sguardo sincero sull’infanzia e l’adolescenza nel cinema del lontano oriente

FEFF22 approfondisce il tema della crescita (infanzia adolescenza e prima giovinezza). Delicatissimo lo sguardo sui bambini, duro quello sulle adolescenze e i loro contesti.

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Ben vengano le iniziative come quella di Mymovies.it che per il Far East Film Festival ci ha proposto ad un prezzo irrisorio ben quarantasei pellicole! Tra tutte, in modo particolare, ben vengano i film che si soffermano su temi universali: quello della crescita, per esempio.

Il festival ci ha parlato di rapporti familiari, amicizie, amori, psicologie che a volte faticano a individuarsi, nel lontano Oriente esattamente come da noi.

The house of us di Yoon Ga-eun (Sud Korea)

La rassegna inizia con la deliziosa storia sud coreana di Hana e le due sorelline Yoo-jin e Yoo-mi: House of us di Yoon Ga-eun. Non abbiamo molto da aggiungere alla recensione di Rita Andreetti sulle pagine di Taxidrivers. Se non che il film trasmette benissimo la sospensione delle giornate estive, e il lento fluire del tempo, in cui Hana si prende cura delle due bambine più piccole di lei.

Un buffo maternage, essendo la stessa Hana  una ragazzina appena. Viene da pensare a Little sister di Hirokazu Kore-Eda (little sisters, diremmo qui), per l’accudimento tutto al femminile, nonostante siano diverse le età, diversi i contesti.

Come ha già osservato Rita Andreetti, le case di queste bambine sono vuote, di familiari e di affetti. Quella di Hana è abitata da una famiglia alquanto disfunzionale. Il fratello rimane chiuso in camera, mentre  i  genitori tornano la sera solo per litigare. Vuota di parenti è anche quella di Yoo-jin e Yoo-mi, affidate a uno zio che non vediamo mai. Le due sorelline sono libere in casa e fuori, girano per il quartiere senza il controllo di un adulto. Consuetudine per noi inconcepibile!

I’m Really Good di Hirobumi Watanabe (Giappone)

Accade la stessa cosa in I’m Really Good del giapponese Hirobumi Watanabe, alla piccola Riko, di cui viene raccontato un giorno comune, dal risveglio fino al suo ritorno a letto. In un bianco e nero nitidissimo, degno di Roma (Cuaron), il tempo scorre tranquillamente, fatto di scuola, compiti, pasti e serenità. Al contrario di tutti i film dedicati ai minori di questo festival, I’m Really Good ci riconcilia con la vita.

In soli sessantadue minuti (di più sarebbero troppi), con estrema essenzialità, il quotidiano di Riko ha il potere di commuovere. Per i suoi gesti comuni, e autentici. A volte il tempo rallenta, come nel tragitto verso la scuola o durante il gioco delle sillabe incrociate  dei tre bambini (Riko, il fratello, l’amica). A noi verrebbe quasi voglia di giocare insieme a loro e di essere, come loro, leggeri.

E i discorsi che ci sembrano vuoti, chissà come sono importanti invece a quell’età. Le due bambine sono in quarta elementare, il fratello di Riko ha qualche anno di più, non molti.

Gli adulti  quasi assenti. A cena, ma siamo alla penultima scena del film,  la madre è vista solo di spalle, mentre a tavola, un po’ seriamente, un po’ scherzando, parla con i suoi figli.

C’è poi lo stesso regista che dev’essersi divertito molto nel ritagliarsi la parte ridicola di un improvvisato venditore di libri porta a porta. Piuttosto imbroglione, visto come fugge quando scopre che il papà di Riko è un poliziotto. Noi non lo vediamo,  come succede per lo zio e i genitori di Yoo-jin e Yoo-mi.

A momenti reali si aggiungono altri momenti reali, stacchi bui che non incidono sulla fluidità, un simbolismo di fondo che li arricchisce. Ogni scena diventa importante e funzionale all’altra, per la consapevolezza a misura di bambini e per come il film sa comunicarcela.

Sembra impossibile che camminino così tanto per raggiungere la scuola o che Riko, da sola, faccia così tanta strada tra le risaie per andare a  casa dell’amica. Scene molto lunghe in cui gli spazi e le distanze sono visti con i loro occhi, e con il loro stupore del quotidiano. I’m Really Good ci fa pensare a un altro film giapponese, Takara, di Damien Manivel, Kohei Igarashi.

Takara però è più piccolo e la sua non è una giornata comune; bensì un’odissea alla ricerca del padre sulla neve. Lo dicevamo già l’anno scorso, comunque, a proposito di Takara che i film orientali sui bambini sanno emozionare, davvero.

Il giovane Edward di Thop Nazareno  (Filippine)

Purtroppo, lo sguardo sulle adolescenze non è altrettanto benevolo, e soprattutto non lo sono gli ambienti in cui si muovono i personaggi, giovanissimi. Dalla scuola all’ospedale, storie di bieco bullismo e situazioni sociali intollerabili.

Il filippino Edward di Thop Nazareno (in italiano, Il giovane Edward) è ambientato in una realtà ospedaliera inimmaginabile. Ancora più struggente vedere come in queste discese agli inferi maturino sentimenti d’amore e di amicizia sani, autentici

Anche per Il giovane Edward rimandiamo alla recensione di Rita Andreetti

Better days di Derek Kwok-cheung Tsang (Cina)

Momenti di tenerezza ci sono anche nelle due storie tormentate e violente che vincono il primo e il secondo premio del festival. Quella cinese di Derek Kwok-cheung Tsang (Better days) e Victim(s) della regista malese  Layla JI. Entrambe parlano di bullismo, ma le azioni sono talmente efferate da poterle definire, senza esagerazione, criminali. Un’adolescenza di devianza, che si alimenta nel gruppo, indisturbata, tra l’inettitudine degli adulti.

Fin dai titoli di testa Better Days afferma che il film vuole sensibilizzare gli spettatori nei confronti di un fenomeno preoccupante come quello del bullismo. Sarà per questo che è così duro?  E che l’incipit ci mostra, se pure con estremo pudore, il suicidio di una studentessa che ha fatto il salto dalle orrende balconate della scuola?

L’edificio è identico a una caserma e come militari invasati in alcune parti del film gli studenti urlano frasi di incoraggiamento individuale, tutti insieme. Sono tanti, tantissimi, in spazi enormi, mentre piccoli e angusti sono quelli privati dei protagonisti.

Dopo il tonfo nell’orrendo cortile della scuola, l’unica ad avvicinarsi, e coprire pietosamente il corpo della ragazza, è Chen Nian (Zhou Dongyu). Gli altri fotografano, e troveranno presto in Chen la preda sostitutiva. Per la prima mezz’ora dei centotrentasei minuti di persecuzioni, si soffre parecchio. Anche dopo, ma l’incontro con il teppista Liu Beishan (l’idolo pop Jackson Yee)  distrae e forse crediamo anche noi, come fa Chen, che possa davvero proteggerla.

Non ha studiato, Liu, e ha una brutta storia di deprivazione affettiva alle spalle. Fa il duro, ma solo all’inizio. In realtà è affascinato fin da subito dalla purezza di Chen, dalla sua determinazione nello studio per superare il gaokao, l’esame durissimo che le aprirà le porte all’Università di Pechino. L’unico modo per riscattarsi dalla povertà è aspettare giorni migliori.

Liu la segue e l’affianca a distanza, difendendola con la sua sola presenza, ma qualcosa andrà storto e il film prende un’inaspettata piega melodrammatica. Un netto cambio di registro che non disorienta; a quel punto abbiamo voglia di sentimenti buoni e va bene così.

Victim(s) di Layla JI (Malesia)

Buia e violenta è anche la vicenda di Victim(s) della regista malese Layla JI. Quella esse, sottolineata tra parentesi alla fine della parola,  indica che negli episodi di bullismo di vittime non ce n’è quasi mai una sola. Qui si fa persecutore e poi di nuovo vittima, in un gioco al massacro fino all’omicidio.

Le prepotenze a scuola sono sempre esistite, se pure con nomi diversi, ed è sempre esistita, tra i banchi, la classe segreta, fatta di relazioni, intese e dissapori che si consumano lontano dagli adulti. Victim(s) però, come Better Days,  è un film particolarmente duro.  La macchina da presa non ci risparmia nulla, impietosamente: il corpo nudo messo alla gogna, la violenza sessuale, calci e pugni in tre su un ragazzo indifeso.

Una brutalità che non vorremmo vedere, né sapere, e forse per questo il film è ancora più necessario. Perché ci fa riflettere su quanto dolore possa provocare la sopraffazione del branco, sull’uso sconvolgente dei social, sull’incapacità degli adulti di frenare il fenomeno, di essene almeno un po’ consapevoli. E sul potere della stampa nel distruggere le persone.

Ma la scelta più disperata sarà quella delle madri che vogliono difendere i figli, l’una dal carcere, l’altra nella memoria. E quando si avvicineranno, ci si commuove, per come è stato ben descritto il loro percorso per arrivare fin lì. Soprattutto quello della madre del ragazzo ucciso, i suoi tentennamenti di fronte ai segreti inaccettabili che scopre via via. E il conflitto tra l’amore per il figlio e la giustizia della verità.

An insignificant affair di Ning Yuanyan (Cina)

Sempre a scuola, ma ancora  in Cina, un’altra vicenda incomprensibile: An Insignificant Affair di Ning Yuanyan. Il protagonista, He Xiaoshi, ci appare subito come un volto familiare e che tenerezza quando ne capiamo il perché! È lo stesso attore, Dong Bowen che ne La guerra dei fiori rossi recitava la parte del piccolo Quian, a quattro anni. Ora è un diciottenne alto e ancora molto carino, che ha conservato lo stesso sguardo incredulo sul mondo.

La guerra dei fiori rossi

La guerra dei fiori rossi iniziava con una sequenza indimenticabile. Il pianto straziante di Quiang mentre camminava sulla neve verso il suo primo giorno d’asilo, strattonato dal padre. Aveva, poverino, tutte le ragioni per ribellarsi. La scuola degli anni Cinquanta era militarizzata e i bambini obbligati a imparare un’eccessiva autonomia, indipendentemente dall’età.

Com’è violenta la scena in cui non riesce a vestirsi da solo e si fa la pipì addosso per l’umiliazione! E poi l’indecifrabile maniera per conquistare quei fiorellini rossi di carta (come segnali di merito) che non si capiva soprattutto con quale criterio si perdessero.

In An Insignificant Affair , ambientato nel 2008, non sembra che le cose siano molto cambiate. He Xiaoshi è un ragazzo un po’ tra le nuvole a cui piace molto leggere romanzi; interesse che non può condividere con nessuno e che nessuno apprezza. Studia poco e sta vivendo una tenera amicizia con Ling Xiaoyu, al contrario di lui, studiosa e rispettosa delle regole. (L’interprete è la stessa regista, Ning, che ne La guerra dei fiori rossi, diretto dal padre, Zhang Yuan,  era l’amica di Quiang).

Purtroppo, la preside  li sorprende mentre si sfiorano le mani e interpreta il loro gesto innocente come la ribellione a una regola fondamentale della scuola: non possono esserci relazioni sentimentali tra gli studenti.

Costretti a scrivere una lettera di autocritica, i due ragazzi si inventano baci abbracci e dichiarazioni amorose che non ci sono stati perché la loro verità non viene neppure ascoltata. Nella stesura fasulla del testo di colpevolezza, avranno modo di stare ancora più insieme e sperimentare le sfumature dei loro sentimenti.

Un po’ si accusano e un po’ si assolvono, sempre nel reciproco rispetto e nell’ascolto attento dell’altro. Continuando a dire che si separeranno, si avvicinano sempre più.

La poesia dei sentimenti viene resa con una tecnica quasi documentaristica, che forse Ning Yuanyan ha ereditato dal padre, regista appartenente in Cina alla Sesta generazione. Realismo e sobrietà sanno comunque coinvolgere lo spettatore nella storia privata dei due adolescenti e nella denuncia a un sistema scolastico fuori tempo.

Colorless di Koyama Takaschi (Giappone)

Concludiamo le nostre note sul Festival  con il  giapponese Colorless di Koyama Takashi, regista al suo primo lungometraggio. Vite senza colore sono quelle di Shu e Yuka, due giovani non più adolescenti che stanno cercando il loro posto in una megalopoli come Tokio.

Lei modella e lui fotografo, sono ancora vaghi negli obiettivi, Yuka, soprattutto. Che continua a mentire sulle sue giornate confondendosi, non si capisce bene il perché, nelle relazioni.

L’amore non dura, dice Yuka quasi a giustificare il suo comportamento ondivago, che non riesce a trattenere nulla, né un amore, né un’amicizia. I rari momenti di felicità e leggerezza di Shu e Yuca insieme sembrano dare colore alla vicenda, ma le promesse della loro unione non vengono mantenute e la storia ripete lo schema di chi fugge e chi rimane.

Andando avanti e indietro nel tempo nel tentativo di spiegarci qualche ragione, di fatto, il racconto aumenta ancora di più la sensazione di quanto siano disorientati questi nostri giovani adulti, ancora molto giovani e poco adulti. Nel lontano Oriente come da noi.

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