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Ostia e la tragedia del sottoproletariato romano: Sergio Citti, il regista anarchico

Nella filmografia di Sergio Citti possiamo individuare un “prima” e un “dopo”. Il “prima” con i film Ostia e Storie scellerate, dove i personaggi si muovono liberi e soddisfano i propri bisogni. Ma già in Casotto i protagonisti sembrano trattenuti, ingabbiati nelle regole della società borghese. In Citti sembra avvenuto lo stesso fenomeno che l’amico Pier Paolo definiva poeticamente “ la scomparsa delle lucciole”

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Sono passati esattamente cinquant’anni dall’esordio cinematografico, da regista, di Sergio Citti. È la primavera del 1970 quando in un cinema di Milano, viene proiettato per la prima volta, Ostia. Certo, l’ormai ex imbianchino di Tor Pignattara non era estraneo al mondo del cinema: “Mio padre faceva l’imbianchino e lavoravo con lui, prendevo ottocento lire al giorno nel 1956. Già conoscevo Pasolini e ricordo che collaborava con Fellini, che gli aveva dato da mettere giù la parte di Mastroianni nell’episodio della puttana con l’acqua per La dolce vita. Pier Paolo venne a scriverla con me e prese duecentomila lire in un giorno e mezzo. E io mi dissi; possibile che ci sia gente così scema che ti dà tanti soldi che io non avevo mai visto e, a quel punto, buttai scala pennelli e cominciai a scrivere con Pier Paolo”.

Sono queste le parole che Sergio usa per raccontare i suoi primi passi nel mondo del cinema. È il 1959, quando Pasolini indica Citti a Mauro Bolognini per i dialoghi de La notte brava. Ma è con Pasolini che Citti crea un lungo e proficuo sodalizio, che terminerà solo nel novembre del 1975, con il brutale assassino dello scrittore di Ragazzi di vita. È Citti a scrivere i dialoghi di Accattone  (1961) e farà lo stesso un anno dopo per Mamma Roma; poi passerà come aiuto regista ne La Ricotta, episodio pasoliniano del film Ro. Go. Pa. G. Sempre tramite Pasolini, Sergio collabora con il maestro Fellini per Le notti di Cabiria e nel 1960 con Bolognini per La giornata balorda. Ma l’esordio di Citti come regista non fu facile. Ostia fu vittima di logiche di commercio razzistiche, secondo le quali un film diretto da un regista di estrazione sociale non borghese avrebbe avuto scarso successo. Ci pensa l’amico Pasolini a difendere il regista esordiente con un articolo dal significativo titolo “Sergio Citti non è naif, e lo fa ricordando come già prima di Sergio, alcuni sottoproletariati e/o piccoli borghesi avevano realizzato un qualche prodotto “artistico”, e per questi la catalogazione era pronta: erano naif, cioè dilettanti con un minimo di talento artistico.

Ma per il regista, che in quel 1970 si apprestava a realizzare la sua Medea, Sergio Citti non era un naif. Per Pasolini, infatti, Ostia fu un film mirato a descrivere un “mondo” intimo, quotidiano e in gran parte autobiografico. Pasolini, in sostanza, vede in Ostia un’affabulazione nata da esperienze profonde e atroci dell’autore. L’ elemento chiave di questa complessa operazione è senz’altro quello che Citti crea con il personaggio della donna. Nel suo cinema la donna sarà spesso demoniaca e in Ostia viene prefigurata allegoricamente nella sequenza immediatamente successiva ai titoli di testa dal racconto di Rabbino: “Un diavolo nero che volava co l’ali de pipistrello che portava sulle spalle una donna gnuda bionda”. E la donna-demonio appare subito dopo con il personaggio di Scimmia, interpretato da Anita Sanders. Fin dalla prima apparizione, Scimmia ha poco di terreno. Compare stesa in mezzo alle sterpaglie, i capelli lunghi e sciolti come quelli della madre di Rabbino e Bandiera sul lettino del manicomio.

Ostia è tutt’altro che un’opera naif, ma è un film complesso che offre varie letture interpretative, a partire dal titolo. Ostia è il nome di una città in riva al mare, è la periferia di Roma, è l’antica Ostia fatta di vecchi ruderi che testimoniano una civiltà sepolta. In latino, inoltre, ostia indica la vittima consacrata, che viene immolata agli dei, e ostia è soprattutto il corpo di cristo, la vittima sacrificale per eccellenza. In Ostia c’è tutto questo e anche altro. Il primo film di Sergio Citti racconta un mondo arcaico, una società pre-borghese. Il film è molto più vicino a una tragedia greca che ad Accattone: c’è un stupro, un incesto, un parricidio, un fratricidio e il possesso di un bene non è mai individuale, come nella società borghese, ma collettivo. Lo spunto iniziale per realizzare un film come Ostia in Citti nasce da un fatto reale, quotidiano. Una sera a Roma in una pizzeria vede due fratelli che si intrattengono con una donna di strada, mangiando una pizza. Da questa visione, Citti inizia a concepire Ostia, mescolando fatti inventati, con ricordi delle esperienze di vita più intima. Tra queste, la più intima è sicuramente il suo rapporto con il fratello Franco, che in Ostia interpreta Rabbino.

Protagonisti del film, ci sono appunti due fratelli, Rabbino (Franco Citti) e Bandiera (Laurent Terzieff) che vivono di espedienti. Un giorno i due fratelli scoprono, distesa in un terreno incolto, una ragazza e la portano nella torretta, un vecchio rudere, dove vivono. Inizialmente Rabbino e Bandiera non sembrano interessati sessualmente alla ragazza; neanche quando i loro compagni abusano di lei. Il film continua con una serie di flashback di Rabbino e Bandiera che raccontano episodi della loro infanzia, come il loro amore per la pecora Rosina (episodio riconducibile al reale vissuto dei fratelli Citti) e l’omicidio del loro padre, anarchico e ubriacone. Questi sono alternati con i ricordi della ragazza, come quello dello stupro. Tutto cambia quando anche Bandiera e Rabbino iniziano a subire il fascino sessuale di Scimmia. Il suo possesso, da parte dei fratelli, da collettivo diventa individuale, e il loro rapporto degenera in un fratricidio.

L’ambientazione che Citti dà a questa storia, solo apparentemente semplice, ma in realtà stratificata a più livelli narrativi, è quella della Roma urbanizzata  degli anni ‘60. il paesaggio è, in parte, quello già documentato da Pasolini nei suoi film dedicati al sottoproletariato. E dal sottoproletariato provengono anche Rabbino e Bandiera, sono degli scarti, vittime perenni di un mondo marginale. Questo mondo è quello del capitalismo del boom economico, ma il regista ce lo mostra avvolto in un’atmosfera onirica. La pellicola di Ostia sembra rimasta in negativo per rendere il paesaggio ancora più spettrale. Citti ci mostra gli oggetti caratteristici della modernità, come il cemento o l’eternit, ma questi non risultano utili al benessere, anzi diventano inutili e vengono usati per costruire i tuguri, che diventano trappole, per i suoi personaggi. Anche il mare, ricorrente nel cinema di Citti, non viene mostrato come strumento di liberazione dei personaggi, al contrario li trattiene in quel paesaggio tragico. Il mare, che non ci viene mai mostrato con una panoramica, ma quasi sempre di scorcio, sembra contenere delle acque corrotte, come corrotta è la terra. Con questo suo primo film, Citti dichiara la sua sostanziale autonomia artistica dal suo maestro. Citti, a differenza di Pasolini, non ha nessuna intenzione di svolgere un’indagine di carattere sociologico. La sua è un’operazione rivolta a un registro poetico, allegorico, anarchico.

Ostia, stroncato dalla critica ufficiale, ebbe una buona accoglienza da parte della critica di nicchia e fu molto apprezzato nei vari festival di cinema. Alla XXI edizione del Festival di Berlino, dove il film venne presentato fuori concorso, ottenne un buon successo. Alberto Grimaldi, produttore del Decameron (1971) di Pasolini, colpito dal dibattito suscitato da Ostia, propone al regista un progetto per realizzare il suo secondo film. Dal montaggio del Decameron erano rimasti fuori due episodi e Grimaldi propone a Citti di girare altri tre dello stesso genere per realizzare una sorta di sequel, ma Citti decide di realizzare tutto da capo. Così nasce Storie scellerate, che viene presentato nell’Agosto del 1973 al Festival di Locarno. Accantonando il materiale rimasto fuori dal montaggio del Decameron, Citti per Storie scellerate elabora una struttura formata da cinque racconti più una cornice. Decide di abbandonare anche l’ambientazione cinquecentesca e colloca le proprie storie ai primi dell’Ottocento, nella Roma papalina dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli.

A introdurre le storie sono Bernadino (Ninetto Davoli) e Mammone (Franco Citti), che si incontrano mentre cercano un posto per espletare i loro bisogni fisiologici e da lì iniziano a raccontarsi delle storielle, alla maniera del Belli. Attenzione, però, come ebbe modo di sottolineare lo stesso Citti, queste non sono favole, ma “ fatti” e, come tali, appartengono al quotidiano, al vero. Le cinque storie raccontate hanno delle costanti. I protagonisti, siano essi pastori, aristocratici, papi o popolane, sono mossi esclusivamente dagli appetiti più bassi; sesso e fame. Al di sopra di tutti gli eventi narrati si colloca la morte, vera protagonista del film. Protagonisti di queste storie non sono dei veri personaggi convenzionali, ma dei corpi-personaggi che agiscono istintivamente a ogni richiamo degli istinti più bassi. Diversamente da Ostia, dove la concezione del “possesso” era collettivo, in Storie scellerate il possesso è sempre motivo di conflitto. I personaggi vivono in un perenne conflitto per il possesso di cibo, di denaro, di una donna o di un uomo. Alla fine vince il personaggio più dotato di astuzia, furbizia ed energia vitale necessaria per sopraffare l’avversario. I vincitori delle varie storie, per sopraffare o vendicarsi di un torto subito commettono la più crudele azione, come castrazione, una delle costanti che lega le varie storie.

È vero che Citti non fa differenza tra personaggi popolani e personaggi aristocratici o clericali, sono tutti crudeli, chi più chi meno. Di fatto, la castrazione viene usata e subita anche da popolani, come il pastore Cacchione che, scoperta la tresca fra Chiavone e la moglie, risparmia quest’ultima ma le fa mangiare i genitali dell’amante. La castrazione o l’evirazione, poco cambia, in Storia scellerate può essere interpretata anche in chiave anticlericale( in fondo una delle fonti d’ispirazione è Gioacchino Belli). È padre Giacomo il primo a subire questa punizione. Il prete non disprezza i piaceri della carne e, approfittando del suo ruolo, abusa della giovane e ingenua Bertolina, moglie di Nicolino. Ma quest’ultimo li sorprende e costringe il prete a castrarsi con le proprie mani. In Storie scellerate anche altri membri del clero vengono puniti per i loro “peccati”. Nel terzo episodio, infatti, ad essere accoltellato e derubato è don Lopoldo (interpretato da Giacomo Rizzo), che insidiava le donne del paese.

L’attacco anticlericale di Citti non risparmia neanche il Papa, un vecchietto grassoccio, golosissimo delle prelibatezze cucinate dalla sua Suor Cecilia. Ma proprio quando si appresta a sedersi a tavola per gustare un buon pranzetto, il Papa si sente male e si ritrova sul letto di morte e non riesce neanche a bere quel semplice bicchiere d’acqua, muore prima. Insomma, la “cattiveria” di Citti nega al Papa quello che non si nega neanche al più povero. È interessante ricordare la prima inquadratura della sequenza della morte del Papa. In campo lungo appare, appunto, il Papa vestito di bianco e sembra circondato da diavoli vestiti di rosso, i cardinali, e diavoli vestiti di nero, i membri dell’aristocrazia romana. Questi ci sembrano pronti a commettere qualsiasi azione per trarre profitto dalla morte del Papa, che avverrà da li a poco. È ovvio che il bersaglio preferito in Storie scellerate è la Chiesa, o meglio quel potere temporale esercitato dai suoi membri, lontani dal vero popolo cristiano.

Diversamente da Ostia, Storie scellerate non sembra così cupo. Nonostante la crudeltà dei suoi personaggi, il secondo film di Citti è un inno alla risata. È con una grossa risata che termina il film. Quella di Mammone e Bernardino che, mentre raccontano l’ultima storia, vengono portati al patibolo. La morte dei due cantastorie non ha nessuna importanza, loro ridono in faccia alla morte, perché hanno vissuto la loro vita all’insegna della vitalità.

La notte del 2 Novembre 1975, con il brutale e tutt’ora irrisolto assassino di Pier Paolo Pasolini, termina quel sodalizio lavorativo e personale che tanto ha caratterizzato la vita di Sergio. L’ultimo film che i due realizzarono insieme fu Salò o le cento giornate di Sodoma, uscito in Italia dopo la morte di Pasolini. Il film inizialmente doveva essere diretto da Citti, ma nel corso della preparazione, Sergio si disamorò del soggetto e, di comune accordo, decisero che a realizzare la regia sarebbe stato Pasolini. D’altronde Citti aveva intenzione di dare al film un impianto diverso, più ironico, affidando i personaggi dei carnefici a tre attori comici (Ingrassia, Fabrizi e Buzzanca). Pasolini decise per un tono molto più cupo e tragico. Del resto, dopo aver realizzato la trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Cantebury e Il fiore delle mille e una notte), il regista con Salò aveva dato avvio alla trilogia della morte.

Dopo la scomparsa di Pier Paolo, intorno a Sergio Citti e al fratello Franco si crea un clima di grande solidarietà e, finalmente, Sergio inizia ad apparire un vero autore. È in questo clima di solidarietà che Sergio inizia a concepire il suo terzo film, Casotto. Citti dichiarò che Casotto (1975) è l’unico film che ha realizzato senza pensare a Pasolini, ma oggi ci appare come un vero e proprio omaggio allo scrittore bolognese. Casotto non ha protagonista, né singoli, ne corali. Casotto non ha nessuna storia da raccontare. Il film è girato interamente all’interno di un casotto, una cabina collettiva, dove gli avventori di una spiaggia si “spogliano” per indossare il costume da bagno. Il casotto, diventa un palcoscenico sul quale i bagnanti si mettono a nudo, non solo letteralmente, ma anche i propri sogni e bisogni. Diversamente da Storie scellerate, dove varie storie si intrecciavano con un inizio e una fine, in Casotto ci sono tante microstorie, frammentarie, che finiscono per annullarsi a vicenda. È questo che rende Casotto il film del nulla, il film dell’assenza, dell’assenza di Pasolini. Questa assenza può essere interpretata anche come una volontà dell’autore di avviarsi verso un discorso meta-cinematografico. Citti in Casotto dimostra di essere giunto a una grande padronanza della macchina da presa. Il film è interamente ambientato in uno spazio angusto, nonostante ciò la macchina da presa è libera e si muove nello spazio in maniera magistrale, sottolineando le potenzialità espressive del mezzo cinematografico.

Il film non fu compreso e fu un totale fiasco al botteghino, nonostante Gianfranco Piccoli, produttore del film, avesse riunito un cast eccezionale: il film infatti vede la partecipazione di attori come Paolo Stoppa, Gigi Proietti, Anna e Mariangela Melato, Ugo Tognazzi e la giovanissima Jodie Foster, appena uscita dalle riprese di Taxi driver di Martin Scorsese e trasformata daCitti in una tipica ragazzina delle borgate romane. Casotto segna uno spartiacque nella carriera da regista di Sergio Citti. Dopo il suo terzo film non sarà più libero di esprimere la sua vena artistica e sarà costretto a scendere a compromessi per continuare a fare cinema.

Il primo film di questa sua seconda stagione è Due pezzi di pane del 1979. Diversamente da Casotto, realizzato di getto, dovuto più al clima favorevole venutosi a creare intorno a Sergio che a vere esigenze artistiche, Due pezzi di pane ha una lunga genesi. Il regista iniziò a concepirlo ai tempi delle riprese di Ostia, quando aveva l’idea di realizzare un film senza storia, senza attori. Un film che si raccontasse da solo. Due pezzi di pane era stato pensato come una storia, una favola senza tempo. E Citti aveva immaginato il film non recitato, ma raccontato da attori non professionisti, presi nella loro quotidianità, ma si ritrova ad avere come protagonista due attori importanti come Vittorio Gasman e Philippe Noiret.

In Due pezzi di pane la storia, che prosegue senza deviazione, ha come protagonisti una coppia di amici, Pippo (Vittorio Gasman) e Peppe (Philippe Noieret), due suonatori ambulanti. Citti con questo film torna in parte ai temi già affrontati in Ostia, ma li pone in termini diversi. Pippo e Peppe, come Bandiera e Rabbino, sono personaggi disancorati dalla realtà. Ma mentre Rabbino e Bandiera erano le proiezione allegoriche del rapporto di Sergio col fratello Franco, Pippo e Peppe sono due personaggi astratti, in cui il regista condensa tutto il suo pensiero: l’amicizia fra esseri dello stesso sesso, l’anarchia e la filosofia del “sapersela godé”. Anche nel rapporto tra Pippo e Peppe si inserisce una donna. Questa volta, però, la donna non separa, ma fortifica il rapporto dei due uomini. Pippo e Peppe, infatti, decidono di crescere insieme il bambino, che la donna ha dato alla luce prima di morire. In questo suo quarto film il regista sembra “giocare” con il racconto e le sue parti. Un’operazione che ricorda alcune esperienze della letteratura dadaista e in parte surrealista. Basti pensare ai nomi dei personaggi, come i due protagonisti maschili, che ricordano i suoni che producono i bambini per gioco, o anche al nome della donna, che i due amano: Lucia Spartiti, con doppio “giocoso” riferimento alla vicenda. E infine il nome del bambino, Piripicchio, che in romanesco indica una persona molto vitale e giocosa.

In Due pezzi di pane con Pippo e Peppe, forse più che in Ostia, con Rabbino e Bandiera, Citti riesce a dare forma al suo pensiero anarchico. I due amici conducono un’esistenza regolata da leggi che nulla hanno a che vedere con quelle stabilite dalla Società-Stato. Emblematica è la sequenza del processo in cui Pippo e Peppe, seduti agli estremi di un lungo banco, tendono ad avvicinarsi, ma vengono puntualmente separati dalle guardie. Pippo e Peppe sono anarchici anche per quanto riguarda l’educazione del piccolo Piripicchio. Saranno loro a insegnargli a leggere, a scrivere e, soprattutto, a cantare, suonare, ballare e a ridere. E proprio con una risata Citti decide, ancora una volta, di far finire un suo film. Ma questa volta, a differenza di Storie scellerate, dove la risata si beffeggiava della morte, la risata di Pippo e Peppe assume i connotati inquietanti dell’ultima risata, prodotta da chi possiede ormai la consapevolezza che si è giunti al capolinea.

La carriera cinematografica di Citti continua fino al 2005, quando realizza Fratella e sorello, una storia dell’amicizia di due uomini, che si trovano in carcere per colpa di una donna. Ma è forse fino a Casotto e in parte Due pezzi di pane che Citti ha espresso al meglio il suo stile, allegro, poetico, anarchico, crudele, ma gioioso.

Nel 1981 e 1985 Citti collabora con la Rai, realizzando Il minestrone e Sogni e bisogni. Il minestrone, con l’interpretazione di Roberto Benigni, è una storia sulla fame e un viaggio. Sogni e bisogni è una miniserie televisiva del 1985, che vede la partecipazione degli attori più in vista, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Paolo Vilaggio, Giulitta Masini e tanti altri. In Mortacci, invece, Citti ritrova nel cast Vittorio Gassman, che interpreta la parte di un custode di un piccolo cimitero, dove di notte le anime dei defunti vengono fuori dalle tombe e si raccontano le loro storie, nell’attesa di essere dimenticati dai vivi. Con i Magi randagi del 1996, invece, torna il tema del viaggio e di queste lunghe camminate dei personaggi, già usate ne Il minestrone e in Sogni bisogni. Con Cartoni animati del 1998 e Vipera del 2000 Citti torna al tono della favola ma non fa mancare mai un po’ della sua “ crudeltà”.

Nella filmografia di Sergio Citti possiamo individuare un “prima” e un “dopo”. Il “prima”, con i film Ostia e Storie scellerate, dove i personaggi si muovevano liberi e soddisfano i propri bisogni, anche quelli più bassi, senza vergogna e pudore. Ma già in Casotto i personaggi cittiani sembrano trattenuti, ingabbiati nelle regole della società borghese. In Citti sembra avvenuto lo stesso fenomeno che l’amico Pier Paolo definiva poeticamente “la scomparsa delle lucciole”.

Luca Bove

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