Conversazioni con un killer: il caso Bundy, la serie documentario ideata da Joe Berlinger è su Netflix.
Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate
Esiste una bibliografia talmente nutrita a proposito del nostro famigerato protagonista, che un modo più creativo e stimolante di approfondire un eventuale interesse verso la mente criminale, lucida e malvagia è quello di evadere dalla “banalità del male” della realtà e rifugiarsi in un universo artistico-cinematografico che si traduce a pennello nell’Opera di Lars von Trier La casa di Jack.
Le possibili origini del sentiero distorto e oscuro che intraprende una psiche incrinata, le domande senza risposta, l’oblio della disperazione, del dolore incapace di esprimersi se non tramite atti di violenza estrema e senza motivo, di uno sdoppiamento necessario di una (o più…) personalità senza pace alla ricerca continua di piacere , morte e vendetta che si fondono in una spirale dantesca da cui è difficile riconoscere la porta d’ingresso da quella di uscita.
Ma procediamo per gradi, in questa lenta e asimmetrica successione di eventi e considerazioni su questo caso che si dimena ossessivo alla ricerca di una spiegazione razionale, che si contorce nel provare a uscire da un utero che imprigiona l’enigma.
Uno sconosciuto accanto a me
Il documentario in questione, diviso in 4 puntate per un totale di 4 ore circa, è la trasposizione del libro Ted Bundy: conversazioni con un killer dei giornalisti investigativi Stephen Michaud e Hugh Aynesworth, tratto da molte ore di interviste registrate durante la prigionia negli anni 80 a cui sono stati incorporati i filmati degli arresti, dei processi, e le interviste a chiunque avesse avuto a che fare con Bundy (avvocati, giornalisti, amici, parenti, ex fidanzate, psicologi e persino a Carol Daronch, sua vittima scampata alla morte – ma non al feroce assalto- che fu poi la testimone chiave che determinò il suo arresto).
I dialoghi con Bundy, ad ammissione degli stessi autori del libro e di chiunque abbia avuto modo di interloquire con lui, si sono rivelati vuoti e senza contenuti, inconcludenti ed egocentrici.
Anche le “rivelazioni” fatte in precedenza, come ad esempio quelle raccolte da Ann Rule, amica storica di Ted, nel libro A stranger beside me sono spesso incoerenti o totalmente differenti tra quelle che ritroviamo in altre famose biografie.
Non esiste nessuna conversazione agli atti in cui la voce di Bundy ammetta o faccia luce sulle atrocità commesse, i moventi, le ragioni, le azioni compiute, nomi e modalità di approccio e uccisione delle vittime…nulla di tutto ciò.
Nella maggior parte del proprio percorso rocambolesco, dagli anni della caccia al misterioso rapitore di ragazze (dal 73/74 fino a…oggi, in quanto non si ha nessuna traccia di prove concrete, dei molti corpi di giovanissime donne scomparse, quasi sicuramente uccise, seppellite non si sa dove o addirittura altro…) agli anni della carcerazione (dal 1976 all’86), ai processi, fino a pochi giorni dalla sedia elettrica Bundy si dichiarerà sempre innocente e anzi, incederà con passo spedito contro un muro di negazione, distacco e sarcasmo.
Anche nel 1986, a una settimana dall’esecuzione, i suoi avvocati tentarono di salvarlo aggrappandosi alla possibilità di una caratteristica neurologica – forse anche un tumore – di cui sarebbe stato affetto, un blocco di una zona del cervello legata all’empatia e alla capacità di provare amore.
Si tenta a tutti i costi di trovare una spiegazione scientifica, un riferimento ad una patologia psichiatrica come la sindrome bipolare maniaco-depressiva per cercare di annullare la sentenza che lo aveva condannato in quanto non in grado di discernere e incompetente nel potersi difendere da solo.
Solo a tre giorni dalla fine, Ted Bundy, 42 anni – forse nella vana speranza di prolungare la sua vita per qualche anno, forse perché non più in grado di reggere psicologicamente, forse per senso di colpa o rimorso che tuttora è comunque escluso categoricamente dalle possibili motivazioni o chissà cos’altro – parlò per la prima volta in assoluto a proposito dei delitti e confessò di avere ucciso giovani donne in Stati diversi, tra il 74 e il 78, “circa 30”…ma ancora una volta non fornì nessun altro dettaglio né riferimento sui luoghi di sepoltura, a parte l’ammissione del macabro dettaglio della necrofilia.
“Era il tipo di ragazzo che vorresti che tua sorella sposasse”
Tanta la pubblicità per il suo arresto nello Utah, il 23 febbraio del 1976: lui sorride, sicuro e tranquillo della propria innocenza e l’attenzione della stampa su di lui non fece altro che dargli più sicurezza.
Poteva inoltre contare sul sostegno della sua comunità, di cui poteva vantarsi essere un cittadino modello. “Teddy” era un esemplare laureato (in psicologia), un membro della Chiesa dei Mormoni, un aspirante politico repubblicano, il perfetto fidanzato per tua figlia o tua sorella.
La testimone Carol Danoch, sopravvissuta all’aggressione, era la sua principale accusatrice e tale era il divertimento perverso di Bundy nel manipolare i suoi spettatori come se fosse su un palcoscenico, che fu lui stesso ad accusarla di essere una bugiarda, un’attrice, un’egocentrica in cerca di attenzione, muovendosi e gestendo la sua difesa come un perfetto Perry Mason.
La proiezione di se stesso sulla propria vittima è in atto, se pur davanti a un tribunale vestito in giacca e cravatta, senza armi tra le mani se non la sua arma più affilata: la sua mente. In questa fase l’istinto che contraddistingue i suoi omicidi si fa da parte, l’istinto si sposta in un differente scomparto della mente, diventa istinto di sopravvivenza mescolato come in un veleno all’arroganza e alla vanità.
Benvenuti ad Aspen
Ma nella fase successiva, quando gli Stati cominciano a comunicare ed emergono altri corpi di vittime riconducibili al suo modus operandi , egli verrà estradato in Colorado nel 1977 dove era stata aperta un’indagine con accusa nei suoi confronti di omicidio di primo grado con premeditazione.
Ted Bundy continua a dichiararsi innocente, ma ad Aspen inizia a farsi sentire il senso di claustrofobia della prigione. Evadendo dal carcere con un balzo dalla finestra – la cui dinamica fu studiata nei minimi dettagli esercitandosi con dei salti all’interno della sua cella, come lui stesso ci tiene a raccontare nei nastri che ascoltiamo nel materiale del documentario e le varie fotografie della disposizione degli oggetti nella cella – fu proprio lì che la sua maschera iniziò a scivolare via e avvenne la rottura dello schema, la distruzione dell’immagine di uomo innocente.
Dopo 6 giorni di scomparsa tra le fredde e piovose montagne di Aspen, nonostante l’indebolimento fisico, non cede neanche ora alle accuse, anzi, descrive la sua evasione come una piacevole avventura, come un suo progetto portato a termine con orgoglio e gratificazione. Questo evento comportò una conseguente crescita del suo “personaggio”, cosa che non fece altro che alimentare il fuoco dei suoi pensieri, delle sue azioni e del suo ego.
Un’atrocità mai vista prima
Incredibile solo poter pensare a un’altra fuga, avendo a quel punto appurato l’imprevedibilità e al tempo stesso l’astuzia del soggetto. Forse, però, fu proprio un’irresponsabilità da parte di chi non avrebbe dovuto sottovalutarlo che facilitò la sua seconda evasione.
E di nuovo premeditata, essendo diventato ancora più esile per via della “gita” sulle montagne di Aspen in modo da poter penetrare al meglio nel soffitto della cella. Segugio della sua (com)pulsione preferita, riesce a raggiungere un dormitorio universitario (il Chi Omega, arrivando addirittura fino in Florida…) e seviziare brutalmente 4 ragazze (di cui 2 sono purtroppo decedute senza neanche avere avuto il tempo di gridare aiuto).
L’FBI non ha mai visto nulla del genere e non solo per le atrocità rinvenute sui corpi delle vittime, ma anche perché l’assassino non è fuggito lasciando quella scia di sangue dietro di sé, ma ha continuato a spostarsi e ad aggredire ed uccidere – nel raggio di pochi minuti e pochi km dal Chi Omega – un’altra giovane donna.
Un sordido, lurido, dramma giudiziario
Le indagini dell’epoca furono scarne di prove contro di lui, in particolar modo nel primo processo, quello in cui verrà dichiarato colpevole di 7 capi d’accusa tra cui i più gravi ovvero un triplice tentato omicidio e il duplice omicidio delle ragazze del dormitorio universitario in Florida con sentenza di morte definitiva.
D’altronde, negli anni 70, non esisteva di certo la tecnologia che possediamo ora e gli strumenti a disposizione dell’FBI si limitavano a telefono e posta. Elemento più inquietante era il volto camaleontico di Bundy: la sua abilità nel camuffarsi, cambiare aspetto di continuo (capelli, barba, occhiali, peso corporeo, ecc…), astuzia nell’adattarsi all’ambiente, gli permisero di eludere per così tanto tempo il mondo che gli dava la caccia.
Tutto ciò non giustifica il fatto che il processo e l’intero caso Bundy si sia trasformato in un sordido, lurido, dramma giudiziario: la Corte diede il permesso all’imputato non solo di difendersi legalmente da solo pur non avendone nessuna competenza né titolo di studio, ma permettendo lamentele sull’impossibilità di fare sport all’aperto, sulla scarsa illuminazione della cella e di interrogare un testimone della propria scena del crimine lasciandogli descrivere i minimi dettagli.
I video del processo sono riportati anch’essi nel documentario ed è abbastanza evidente che l’imputato traesse godimento nell’udire tali dettagli, come se stesse rivivendo le emozioni dei suoi delitti, perdendo razionalità, se pur in modo impercettibile.
Soprattutto da questo tipo di atteggiamenti, dal suo essere sempre ben vestito, sorridente, spigliato e con senso dell’umorismo, cresce nella folla mediatica un’attrazione morbosa per il caso Bundy e per l’uomo stesso definito da molti affascinante, in particolar modo da ragazze molto giovani che lo ammirano e gli scrivono bigliettini d’amore.
E forse è anche questo un importante elemento da valutare, da ricercarsi nella grossa, oscura falla in cui nasce un serial killer: la legge su cui si basa la società dove nasce e vive, in questo caso gli Stati Uniti d’America (negli anni 70).
L’accusa, finalmente, fornisce una prova che mette forse per la prima volta in vera difficoltà Bundy, definendola lui stesso “un’ umiliazione”: su una delle vittime è stato ritrovato un morso che corrisponde ai suoi denti, un indizio che fino a quel momento non era mai stato riportato in un caso penale.
Ted Bundy prova a temporeggiare e prendersi gioco della Corte, ma il verdetto è inesorabile ed è pena di morte. La sentenza fu accompagnata da una memorabile dichiarazione di simpatia/empatia da parte del giudice nei confronti dell’imputato, come se avesse provato pietà o tenerezza nei suoi confronti, come se avesse riscontrato un potenziale sprecato in lui, definendolo come un ragazzo che aveva preso la direzione sbagliata.
Il secondo processo fu addirittura peggio di una farsa (con annessa proposta di matrimonio all’amica Carol Ann Boone, sua “paladina” e sostenitrice in tutto il percorso giudiziario dalla quale ebbe anche una figlia durante la permanenza nel braccio della morte) e il crimine imputato forse ancora più efferato dato l’età della vittima (una bambina di 12 anni di nome Kimberly Leach). Confermata la condanna del processo precedente.
Chi era/è Ted Bundy? Ted, uno di noi.
Aggressioni improvvise e impetuose determinano uno schema da attribuire a un soggetto apparentemente ordinato, ma che agisce in modo disordinato. Ma uno schema è pur sempre generato da qualcosa, dalla ragnatela che è la mente umana, malvagia o meno, è sempre una mente umana.
Secondo lo psicologo Al Carlisle che lo seguì durante il periodo di valutazione che era previsto subito dopo la sua condanna, il campanello d’allarme che avrebbe definito Bundy un soggetto violento (che fosse colpevole era già certo…) fu il rifiuto di ammettere la sofferenza di aver scoperto all’età di 14 anni di essere un figlio “illegittimo”, di padre ignoto e di come la scoperta di questo evento abbia potuto sconvolgere la sua mente.
Bundy, come ascoltiamo dai nastri e dalla testimonianza diretta di Carlisle, definisce il diagnosta “amatoriale” e “ un coglione “ per aver considerato un elemento del genere il fulcro e la spiegazione dei comportamenti che avrebbero portato alla sua condanna. Il quadro della sua infanzia, con le sue parole, era descritto come positivo, come un periodo limpido e spensierato.
La stessa famiglia definiva Ted “il miglior figlio del mondo”, ma era la stessa famiglia che gli aveva mentito per anni, lo stesso nonno che avrebbe dato sfogo alla sua indole violenta e ad abusi dei quali, purtroppo, non si è mai potuta verificare l’attendibilità e rimasero dei torbidi sospetti.
La negazione comprende anche il fatto di una scelta non casuale delle proprie vittime, in quanto, eccetto la somiglianza fisica sembrava non avessero nulla in comune. Eppure questo elemento fu considerato ai posteri, a chi studia ancora il suo profilo cercando di volerne ancora comprendere la mente, un qualcosa da ricollegarsi alla somiglianza delle sue ex fidanzate Diane M.J.Edwards ed Elizabeth Koeplfer, le cui relazioni amorose fallite segnarono particolarmente Ted Bundy.
Diverse personalità, negazione, sistema difensivo impenetrabile, esigenza primaria di mantenere un’immagine pulita sia prima che dopo che i delitti venissero scoperti: un’immagine da difendere può rimanere l’ultima arma a disposizione per proteggere il tuo vero essere, per continuare a tenere sotto controllo –almeno agli occhi degli altri – quello che ti tortura e ti tormenta, quell’oscurità che per troppo tempo hai tentato di tenere al guinzaglio con la calma apparente di un lupo che sta per sbranare la sua preda ignara.
Il Titano del Crimine, Joe Berlinger
Senza nulla togliere al titano del crimine Joe Berlinger , regista del suddetto documentario distribuito da Netflix, Confessioni di un serial killer: il caso Bundy (e anche del film realizzato sulla stessa figura, nello stesso anno, con Zac Efron nel ruolo principale , intitolato Extremely wicked, shockingly evil and vile e soprattutto dell’intera trilogia dedicata agli omicidi dei bambini dell’Arkansas per mano di una presunta setta satanica intitolato Paradise lost: the child murders at Robin Hood hills – tema che ritroviamo anche nell’ottimo film del 2013 di Atom Egoyan The devil’s knot), il risultato finale potrebbe essere quello di aver assistito a qualcosa di circolare e ripetitivo, un deja vù. Forse.
Se non si fosse minimamente a conoscenza di uno dei drammi di cronaca nera più importanti d’America, allora la visione è più che consigliata.
Per chi avesse già avuto modo di vedere i filmati dell’ epoca interamente raccolti qui, fotografie e materiale dell’epoca, potrebbe esserci qualche sorpresa in serbo, se non altro sulle riflessioni che ne conseguono e per l’effetto che scatena vedere e ascoltare tutto in una volta sola.
Per chi si aspetta dettagli pruriginosi dei delitti e confessioni inedite, rimarrà deluso.
Il documentario ridimensiona la figura di uno dei serial killer più efferati della storia che fino ad oggi, o comunque popolarmente, è sempre stata ricondotta a un’immagine molto affascinante: bello e glaciale, demone freddo e calcolatore, uno psicopatico narcisista con il viso di un attore hollywoodiano.
Il lavoro di Berlinger è incentrato interamente sulle vicende di Ted Bundy escludendo quasi completamente il punto di vista dell’empatia verso le vittime e vuole dimostrare, in maniera molto approfondita e dettagliata nell’esposizione dei documenti, che nonostante l’abilità del killer di voler provare di essere al di sopra di tutto e superiore a tutti, in realtà lo abbia portato a un inevitabile tragitto verso la sedia elettrica, a non farla franca, a non essere sufficientemente superiore , abbastanza intelligente per poter sconfiggere la verità.
La struttura del progetto di Berlinger è interessante anche se non lineare: questo aggiunge sicuramente, non solo alla produzione cinematografica, ma alla vicenda stessa un eterno punto di domanda, una sensazione di nodo alla gola che non sarà mai sciolto.
La sensazione è questa: quella di un’umanità smarrita assieme all’apparente calma dell’alito del gelo. Rimanere sospesi in una dimensione senza conforto né redenzione.