Cosa succede quando sono i bambini a raccontare la guerra? HeART of GAZA è una mostra che toglie il fiato: disegni forti, veri, scomodi, realizzati da bambine e bambini della Striscia di Gaza. L’iniziativa arriva ad Aosta grazie al Cactus Film Festival, attraverso Extra Cactus, che mette al centro l’infanzia e i suoi linguaggi. La traduzione di cactus in arabo è sabaar, mentre pazienza alsabr, due parole con la stessa radice. Queste piante non rappresentano unicamente la resilienza, bensì delle isole in cui sono presenti i cactus in cui un tempo sorgevano i villaggi. Ne parliamo con Raffaella Persichella, una delle curatrici del progetto, per capire cosa significa davvero lasciare spazio all’arte – e alla vita – anche sotto le bombe.
Uno degli obiettivi del Cactus Film Festival è educare alla visione. HeART of Gaza aggiunge un tassello importante: non solo immagini per l’infanzia, ma immagini dell’infanzia, nate in un contesto di guerra. Cosa ha significato accogliere una mostra di questo tipo all’interno di un festival cinematografico?
Ma guarda, sicuramente, tanto per cominciare, penso sia un grande privilegio riuscire a portare queste immagini in questo contesto, perché il Cactus Film Festival ha questa attenzione all’infanzia sin da quando è nato. È nato in un periodo in cui i bambini e le bambine non potevano andare al cinema, e in realtà nemmeno a scuola: non potevano uscire. Durante il lockdown, ricordiamo che sono stati una delle categorie dimenticate. E proprio in nome di questa infanzia dimenticata, sono arrivati, a un certo punto, anche i disegni delle bambine e dei bambini di Gaza.
Una cosa che mi piace spesso ripetere è ciò che diceva Eglantyne Jebb, la fondatrice di Save the Children: «Ogni guerra è una guerra contro i bambini». Quindi, indipendentemente da quali possono essere — se mai ci possono essere — delle ragioni per questa violenza, chiaramente chi ne paga le conseguenze più alte sono proprio i bambini, che non hanno assolutamente alcuna responsabilità.
E quando c’è tanto rumore — che può essere il rumore delle bombe, ma anche quello degli adulti che si parlano addosso — bisogna trovare il modo di alzare un po’ il volume attorno alle voci dei bambini. Ed è quello che abbiamo cercato di fare portando questa mostra qui. È la stessa cosa che fa Cactus, perché in qualche modo noi pensiamo sempre che quando un film è adatto ai bambini, allora è adatto a tutti. Non c’è niente di più inclusivo che trovare le parole dei bambini e farle risuonare nel mondo.

La mostra nasce da un incontro: quello tra Mohammed Timraz, fondatore della Tenda degli Artisti a Deir Al Balah, e l’illustratrice irlandese Feli Butler. Ci racconti come è avvenuto questo primo contatto e che tipo di rapporto umano e professionale ha reso possibile HeART of Gaza, come lo vediamo oggi?
Il primo incontro con Mohammed è stata una videochiamata. In realtà si è messa in contatto con lui immediatamente l’altra curatrice della mostra, Emanuela Pettinari. Lui è diventato subito operativo, perché aveva un’urgenza, chiaramente. Quando ha sentito dell’interesse, ha voluto coglierlo al volo: ci ha detto subito «Facciamo una chiamata domani» — e noi effettivamente il giorno dopo ci siamo collegati.
Lui ha voluto subito capire quali fossero le nostre intenzioni: voleva essere certo che non avremmo speculato sulle immagini, che le avremmo utilizzate come lui voleva, e che avessimo compreso la gravità della situazione. Quando ha capito che eravamo dentro il progetto nel modo in cui lui lo immaginava, ci siamo scambiati informazioni. Voleva sapere come avremmo messo le cornici, dove avremmo esposto, aveva già una scheda molto ben organizzata.
C’era già stata una mostra con Feli Butler, quindi un’impostazione di base c’era. A un certo punto ci ha condiviso una cartella Drive con i primi 55 disegni e le didascalie: questi statement dei bambini e delle bambine. Noi ci siamo limitate a tradurli in italiano, e abbiamo conservato tutte e tre le lingue: l’inglese, aggiunto per le mostre in Irlanda; l’arabo, la lingua originale; e l’italiano, la lingua di approdo qui.
Mohammed è un genio, si è inventato qualcosa che funziona benissimo. Dal punto di vista professionale, credo sia un grande curatore. Tutte le volte che facciamo delle mostre, lui è presente — virtualmente — alle inaugurazioni. Se vogliamo fare migliorie o cambiamenti, li discutiamo con lui. Abbiamo deciso insieme le dimensioni delle stampe e se aggiungere pannelli di spiegazione.
Una cosa che abbiamo deciso insieme sono state le mappe della Palestina, perché spesso le persone ci facevano domande geografiche. All’inizio mostravamo immagini da cellulare, poi abbiamo capito che era un’esigenza vera, ne abbiamo parlato con lui, e lui ha detto: «Ottima idea».
Il rapporto con lui ora è quotidiano: abbiamo un gruppo Whatsapp con i vari curatori e allestitori della mostra. Ogni giorno ci mandiamo “buongiorno”, “buonasera”, “buonanotte”, foto… Ogni tanto (lui è magnifico), ci manda un selfie e ci chiede un selfie a tutti — una specie di BeReal improvvisata. È bello perché in questo modo ci tiene uniti.
Poi ci sono giornate in cui la connessione non funziona, i messaggi non arrivano, niente doppia spunta, e ci preoccupiamo… ma finora, per fortuna, ha sempre risposto. Ci siamo sentiti anche oggi pomeriggio!

Il disegno, come il cinema, è una forma di narrazione visiva. Entrambi nascono da un’urgenza di dire, di rappresentare assenze o speranze. In che modo crede che questi disegni parlino non solo ai bambini, ma anche agli adulti, spesso disabituati a leggere il dolore attraverso l’immaginazione?
Mi piace molto ricordare una cosa che dice un altro mio amico palestinese, uno street artist. Lui ha scelto il disegno per raccontare la Palestina e il popolo palestinese, perché è internazionale. È una lingua internazionale. Non c’è bisogno della mediazione delle parole.
La cosa che succede sempre in mostra — e ormai siamo alla 14ª mostra — è che le persone non hanno davvero bisogno di essere accompagnate: i disegni parlano da soli. Sono disegni di bambini. Non sono capolavori. Sono disegni che anche i nostri nipotini fanno, e che magari appendiamo al frigorifero.
Riconosciamo il tratto dell’infanzia. Ma dentro quel tratto riconosciamo qualcosa di straniante: non solo torte di compleanno, ma carri armati, sofferenza, fame, paura.
E questo lo si percepisce anche senza leggere le didascalie, che comunque aggiungono molto. Lo vedono anche i bambini, quelli che magari non sanno ancora leggere: passano per la mostra, fanno domande, e tutte le volte si finisce a parlare di giustizia. È bellissimo, perché non si fanno prendere in giro dalle risposte a cui noi adulti ci siamo abituati. I bambini dicono: «Non ha senso, non è giusto». Ti riaprono gli occhi, ti fanno da specchio. Mi sembra il luogo migliore per far parlare più i piccoli che i grandi.
Il cinema ha sempre avuto un ruolo importante nel raccontare i conflitti, ma raramente ha saputo restituire l’immaginario dei più piccoli nei contesti di guerra. Secondo lei, cosa può imparare il cinema da un progetto come HeArt of Gaza?
Sicuramente l’onestà intellettuale. E sicuramente il punto di vista. Il cinema è fatto di punto di vista. E molto spesso, soprattutto nel cinema mainstream, siamo abituati allo sguardo di chi ha vinto. I racconti che abbiamo sono quasi sempre quelli dei vincitori.
Mi fa un po’ sorridere, perché in questi giorni, dopo l’aggressione nei confronti dell’Iran, giravano dei meme con immagini: com’è l’Iran nella realtà (città enormi, montagne innevate) e com’è nei film di Hollywood (casupole nel deserto).
Al di là del meme, ecco: quello che questa mostra ci insegna è di abbassare il volume, abbassare anche l’altezza dello sguardo. Fare un passo indietro e guardare cosa fanno gli adulti con gli occhi dei bambini. E spesso, agli occhi dei bambini, quello che fanno gli adulti non ha senso. E hanno ragione loro.

La mostra ha già viaggiato, e continua a farlo. In questo momento si trova in Valle d’Aosta, grazie al Cactus Film Festival.
Dove potremo vederla in futuro? E che tipo di rete o sostegno sta ricevendo il progetto solidale We Are Not Alone, che ne rappresenta la colonna etica?
La mostra ha viaggiato. Noi personalmente l’abbiamo portata in diversi comuni delle Marche. Ma ci sono altri gruppi che la stanno portando in giro per l’Italia e per l’Europa. All’inizio ha avuto difficoltà in Germania, dove sono stati vietati alcuni spazi, ma ora stanno iniziando a concederli.
C’è stato un bel tour in Irlanda, grazie a Feli, che è di casa lì. Ci sono state tappe anche oltreoceano, soprattutto a Chicago, una città molto accogliente da questo punto di vista. Ci sono state tappe anche in Francia.
Questa, in Valle d’Aosta, è la prima volta che la portiamo fuori regione come nostro gruppo. Siamo in contatto con l’Università di Bologna: tra ottobre e novembre dovremmo riuscire ad allestirla anche lì. Abbiamo già esposto anche all’Università di Urbino, che è stata la prima ad accoglierci, con tanto di benvenuto del Rettore. È stato un vero onore, anche perché c’erano studenti e studentesse.
Siamo in contatto anche con realtà toscane e con l’associazione Granello di Senape, presente in tutta Italia: stiamo cercando di organizzare mostre anche insieme a loro, per diffonderla il più possibile senza doverci spostare ogni volta noi. L’obiettivo, citando We Are Not Alone, è anche quello di raccogliere fondi. E quindi cerchiamo di spendere il meno possibile, proprio per poter inviare più denaro a Mohammed ed alla sua comunità.
In questo momento, banalmente, è difficile anche fare la spesa. Per questo cerchiamo di organizzarci anche con gruppi fuori regione, per contenere i costi e destinare le risorse al progetto. Mohammed ha messo in piedi questa raccolta fondi. Ed è stato molto furbo — sempre tornando alla sua genialità — perché quando una famiglia fa la spesa da sola non riesce a contrattare come quando dieci famiglie fanno la spesa insieme. Un conto è comprare un pollo, un conto è comprarne venti. Anche così riescono a risparmiare.
Questa raccolta fondi viene gestita in base alle necessità. Durante l’inverno, per esempio, sono stati comprati giubbini, coperte, scarpe, attrezzature scolastiche. Sappiamo che lo scorso inverno molti bambini sono morti per ipotermia nella Striscia di Gaza, quindi si è presa cura anche di questo.
Ultimamente, visto che il cibo scarseggia sugli scaffali, Mohammed ha scelto di ritirare denaro contante e distribuirlo alle famiglie in base ai componenti del nucleo familiare. Ci si inventa qualcosa in base a quello che serve, ma non si sentono soli.
Mohammed dice sempre: “We are not alone”. Un’altra frase che ripete spesso — e che dicono tanti palestinesi — è: “We are not numbers.” E mi piace concludere con questa: Together, we shine.