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Conversation

Oggi fare l’artista è rivoluzionario: conversazione con Vera Dragone

Nipote del grande Vittorio De Seta, è l'esempio di una generazione di interpreti per cui la recitazione è solo una delle discipline artistiche con cui esprimersi.

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Attrice, ballerina e cantante, Vera Dragone è appena stata Rosalie Mullins nel musical School of Rock, mentre nella prossima stagione la vedremo far perdere la testa nientedimeno che ad Alberto Sordi. Nell’intervista che segue abbiamo ripercorso con lei le tappe fondamentali della carriera, ragionando sul senso ultimo del suo mestiere.

Essere la nipote del grande Vittorio De Seta non bastava a fare di te una figlia d’arte perché a rafforzare il legame con il mondo dello spettacolo ci ha pensato il resto della tua famiglia.

Sì, diciamo che era anche un po’ inevitabile, per quanto devo dire che fino ai sedici, diciassette anni, ero veramente molto timida e quando mi chiedevano cosa volesse fare la nipote di De Seta rimanevo senza parole. Tieni conto che mia nonna oltre ad avere il mio stesso nome era pure lei un’attrice, come anche mio zio, Ivo Garrani. Rispetto a queste ascendenze artistiche io rimanevo una ragazza introversa che amava stare chiusa in casa a disegnare. Avevo comunque preso lezioni di canto perché amavo farlo, senza però avere mai valutato la possibilità di esprimermi davanti a un pubblico. Tanto è vero che poi a nove anni mia madre mi iscrisse a un saggio in cui avrei dovuto cantare Azzurro. Sono salita sul palco rimanendo muta per l’emozione, paralizzata.

Se però oggi si guarda al tuo curriculum a venirne fuori è una personalità molto estroversa.

In realtà, sì. Dapprima ho cominciato a fare teatro grazie a un evento collaterale all’organizzazione di una retrospettiva su mio nonno, voluta per celebrare il suo ottantesimo compleanno. A un certo punto è arrivata questa signora che era stata attrice anche lei, però a livello amatoriale, la quale mi convinse a fare questo spettacolo su Shakespeare al teatro Masciari. Avevo sedici anni e affrontai quella prima esperienza come un gioco, invece da quel momento è stato inarrestabile, sono stata totalmente catturata dal mondo del teatro. Non mi sono più allontanata e da quel giorno faccio quel lavoro lì.

Hai scelto di stare davanti alla macchina da presa e non dietro.

Si.

Sempre scorrendo il tuo curriculum, mi sembra che tu non disdegni le occasioni che ti permettono di prendere in mano le redini dei tuoi spettacoli?

Beh, ho scritto anche uno spettacolo qualche anno fa, era il 2011, con una mia compagna di accademia, Lucrezia Guidone.

Con cui io ho avuto il piacere di conversare in una delle mie prime interviste. 

Sì, anche lei adesso sta facendo un sacco di cose. È una bravissima attrice, lo è fin dai tempi dell’Accademia. Abbiamo scritto uno spettacolo insieme che poi è risultato vincitore in un concorso per il quale siamo state anche premiate. In un paio di occasioni mi è capitato di sceneggiare e dirigere, ma non ho mai pensato di farlo in pianta stabile.

Però quando sei sul palco, e non parlo di te come attrice ma come performer, cantante lirica e soprattutto di Jazz, in qualche modo sei tu a dirigerti.

Penso sempre che un interprete ha bisogno di un regista, però le collaborazioni migliori si hanno quando l’attore ha la possibilità di fare delle proposte a un regista che le considera e le discute. A mio avviso quelle sono le occasioni in cui nascono gli spettacoli migliori.

Ti sei trasferita a Roma per studiare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico da cui sono usciti tanti interpreti più o meno importanti. Nella mitologia del tuo mestiere quelli sono anni impegnativi ma belli perché c’è, sì, la difficoltà della gavetta, ma anche lo spazio per poter sognare una grande carriera. Per te com’è stato quel periodo?

Ovviamente con alti e bassi. Non lo ricordo come il periodo più felice della mia storia di attrice. Devo dire che finita l’Accademia per me da un certo punto di vista è stato anche un sollievo. Per quanto abbia dei ricordi stupendi, si tratta pur sempre di un periodo di studio e di formazione e dunque di un’organizzazione militare: dal Lunedì al Sabato devi sempre stare lì, mentre la sera il tempo è occupato dalle prove, per cui per tre anni l’unica cosa che esiste è l’Accademia e nient’altro. Se è vero che un po’ ho risentito di quella situazione, in compenso ho avuto la possibilità di incontrare i più grandi maestri della mia vita: da Mario Ferrero, che purtroppo ora non c’è più, a Lorenzo Salvati e Anna Marchesini. Con loro ogni giorno era un’esperienza incredibile. Parliamo di gente con alle spalle anni di teatro e di palcoscenico e dunque in grado di insegnare al meglio l’arte in questione.

In realtà, però, non ti fermi alla sola recitazione, ma ti rivolgi anche al canto e il ballo, alla musica jazz e lirica. Non ti bastava essere solo attrice.

Io, in realtà, sono nata prima come cantante, perché a casa mia si ascoltava tanta musica: mia madre era una patita dell’opera, quindi a casa i dischi di musica classica dispensavano di continuo canzoni e io, per imitazione, ho cominciato a cantare. A sette anni se mi chiedevi cosa volevo fare da grande rispondevo la cantante lirica, perché ero proprio appassionata, mi piaceva tantissimo. E da lì, un po’ per gioco, ho iniziato a frequentare una scuola di canto, poi ho fatto l’Accademia dove studiavamo anche questa disciplina, seppure non così tanto come la recitazione. Successivamente ho iniziato a cantare jazz. Sono stata per molti anni in un gruppo swing che si chiamava Ladyvette.

Parliamo di School of rock.

Si, School of rock. Devo dire che Massimo Romeo Piparo mi ha dato una grande opportunità, scegliendomi sulla base di una meritocrazia che ha potuto far valere in quanto uomo libero. Io non sono una dell’ambiente del musical, però è vero che per poterlo fare devi avere delle caratteristiche precise: è necessario saper recitare, cantare e in alcuni casi ballare, quindi è un po’ difficile prendere delle persone che non lo sanno fare.

In questo senso, penso che In Italia un’artista poliedrica come te metta un po’ in difficoltà non solo gli addetti ai lavori ma anche la critica, che è impreparata a trovarsi di fronte una performance così completa.

Un po’ è vero, perché tendono a inquadrarti in un personaggio, per cui se sei di bell’aspetto e sei un’attrice puoi solo fare determinati personaggi e non altri.

Intendevo proprio quello.

Ultimamente le cose stanno un po’ cambiando. Devo dire che, oltre me, ci sono molte mie colleghe altrettanto poliedriche. Per anni c’è stata un po’ di diffidenza verso i performer, soprattutto donne, considerate showgirl, una parola che in Italia è intesa in senso diminutivo.

Forse perché ci si riferisce a un periodo in cui nel mondo dello spettacolo le donne era subordinate e chiamate a fare da spalla ai loro colleghi. È una domanda che sto facendo prima di tutto a me.

Però nella televisione degli anni Settanta c’erano delle showgirl che oggi non esistono più. Pensiamo a Delia Scala, o anche alla stessa Raffaella Carrà. Erano delle artiste complete che tenevano banco nelle prime serate televisive dell’epoca.

Ora si parla di perforare, per sottolineare la versatilità dello stare in scena.

Si, per fortuna le cose sono sono un po’ cambiate. Spesso in Italia quando si parla del musical lo si fa considerandolo un genere di serie B, nonostante sia il campo più difficile. Per poter fare tutte le cose contemporaneamente devi essere una specie di atleta.

Detto che il musical nel cinema è considerato il genere più cinematografico di tutti, ho visto le tue esibizioni e il modo in cui tieni il palco: canti, balli e reciti contemporaneamente. Sei un corpo e insieme una voce.

Certo, però penso che anche un attore che recita e basta sia un corpo e una voce. Non si può, in realtà, escludere nessun aspetto, in nessuna delle arti, perché alla fine ognuna esprime qualcosa che include un po’ tutto. È un modo per esprimere delle emozioni, per trasmetterle e fare emozionare il pubblico.

In Italia è difficile trovare un attore maschile che oltre a recitare sappia cantare, ballare, muoversi sul palco a ritmo di musica. Normalmente all’estero questo succede, ma da noi è una prerogativa soprattutto femminile.

Purtroppo la formazione è settoriale per cui se fai un’accademia di musical si studia maggiormente canto e danza  e non si capisce bene perché. Se fai la Silvio D’Amico studi soprattutto quest’ultima, mentre le altre, se hai fortuna, le approfondisci da solo. Secondo me forse servirebbe ampliare alcuni settori delle scuole perché ci sono tanti talenti inespressi che se avessero la possibilità di studiare in maniera più consona alle loro predisposizioni potrebbero venire fuori. Bisognerebbe entrare nell’ottica che c’è all’estero e cioè che un attore di cinema può benissimo fare teatro di prosa e musical, senza per forza identificarsi con uno di essi. A me capita di fare dei concerti jazz, poi di fare musical e magari una serie tv e non mi sento meno rappresentata da una cosa rispetto a un’altra. Cerco di esprimermi in ogni campo e quando faccio un concerto jazz sono al cento per cento una cantante di quella musica, quando faccio una serie tv mi calo nella veste d’attrice. Quindi non saprei dire esattamente che cosa mi rappresenta di più, semplicemente mi piace definirmi artista.

Parlando di scelte musicali, le tue si rivolgono a un repertorio che va dagli anni Venti agli anni Cinquanta.

Sì, principalmente sono un’appassionata di jazz e totalmente innamorata di questo genere. Però mi dedico anche al Tango. Si tratta di una passione nata ai tempi dell’Accademia. Finita quest’ultima ho iniziato a frequentare le milonghe e inevitabilmente ho iniziato anche a cantarlo.

Stiamo parlando di musiche dei cosiddetti tempi della crisi e, in questo senso, il fatto che tu le interpreti in una stagione altrettanto problematica le rendono ancora più moderne.

Certo, oggi più che mai fare l’artista è “rivoluzionario”, perché anche facendo un lavoro cosiddetto statale, soprattutto le persone della mia generazione non hanno tutte queste garanzie. Quando nel passato mi è capitato di chiedermi se veramente dovessi fare questo lavoro, se fossi davvero pronta per questa missione che è oggi fare l’artista, ad aiutarmi è stata la consapevolezza, visti i tempi, di non avere nulla da perdere. A volte mi capita di parlare con amiche che hanno fatto scelte completamente diverse: chi è diventata medico o chi fa la ricercatrice e non è che siano messe meglio di me che faccio l’artista.

Il tuo modo di esserlo esprime un’idea di mobilità tipica di un’epoca in cui i giovani sono spinti a riconsiderare ogni volta i propri obiettivi lavorativi. Il fatto che tu passi da una disciplina all’altra e che alternativamente le combini e le separi è un segno dei tempi, oltreché del tuo modo di essere.

Sì, diciamo che per carattere non riesco a stare ferma cinque minuti. Ho cantato fin da piccola, il teatro è venuto dopo. Quando ho cominciato a recitare avevo appena finito l’accademia e i lavori non erano così frequenti. Invece di rimanere con le mani in mano insieme a Valentina Ruggeri – artista come me, altrettanto vulcanica – abbiano cercato altre strade. Il problema per la nostra generazione non è la mancanza di talento, né la voglia di esprimersi. A venire meno è lo spazio per poterlo fare.

Se il cinema ricerca delle performance tanto perfette quanto artificiali, le tue, parlo di quelle dal vivo, vanno in controtendenza, perché valorizzano il fattore umano del gesto artistico. 

Certo, totalmente. Alla fine uno pensa al teatro come un’arte evanescente, con una rappresentazione diversa da quella del giorno prima. Però, secondo me, un po’ di eterno c’è comunque, perché nel momento in cui sei sul palcoscenico e riesci a colpire l’immaginario di chi ti sta vedendo o ascoltando, e che magari fa una vita completamente diversa dalla tua, ecco, secondo me, hai colpito nel segno. In questo il teatro assomiglia al cinema, per la possibilità che ha la Settima Arte di proiettare all’infinito le sue immagini e farle rimanere per l’eternità. Il teatro ha questo doppio aspetto: da una parte è effimero, nel modo che abbiamo detto, dall’altra le emozioni che dispensa saranno ricordate per sempre dallo spettatore.

Nelle tue performance canore, teatrali e cinematografiche interpreti spesso donne del passato o figure femminili che ad esso ritornano. Mi sembra che in questo senso il tuo volto faciliti questa predisposizione.

Spesso mi dicono che ho un volto vintage e che riesco a trasformarmi in maniera naturale.

Te lo chiedevo perché notavo che lavori in maniera particolare sui dettagli del tuo volto, sui capelli, il trucco.

Si, diciamo che in maniera autoriale mi piace molto spostarmi da me stessa per crearmi una sorta di maschera attraverso la quale poter recitare qualcosa di vero e autentico. Alla fine, quello che sei viene fuori, però è più bello se lo fai nei panni di qualcun altro, questa è un po’ la mia idea di recitazione.

Se ti chiedo la differenza tra il cinema e la performance dal vivo e ti dico che nel primo prevale il mascheramento mentre nell’ultimo a emergere sei tu senza alcun infingimento ti trovi d’accordo?

Non penso. Secondo me il modo di recitare è uno solo e vale sia il cinema che il teatro. Diciamo che il modo buono di farlo è quando lo spettatore va a teatro e gli sembra che l’attore non stia recitando. Attenzione però, questo non vuol dire essere naturale, ma semplicemente raccontare meglio una bugia. E questo vale anche per il cinema dove una volta raggiunta la perfezione quella scena viene immortalata e poi la puoi vedere all’infinito. A teatro la fatica è doverla ricostruire tutte le sere.

Parlavamo di School of rock: mi sembra che il tuo personaggio sia un po’ una sintesi delle tue molteplici propensioni artistiche per il fatto che la preside Rosalie Mullins condivide con te una natura insieme estroversa e riflessiva.

Si, lei è un personaggio che fa un bel percorso nell’arco della storia, perché la vediamo inizialmente totalmente coperta da una maschera di rigidità, tipica della donna tutta d’un pezzo che si è costruita da sola: incute anche timore ai professori della scuola, finché a un certo punto si imbatte in questo finto insegnante che usa l’identità del suo migliore amico per ottenere il lavoro presso la scuola. Lui è uno totalmente squattrinato ma, paradossalmente, lei perde i suoi freni inibitori e se ne innamora, riscoprendo la se stessa di un tempo, quella che aveva un’anima rock. School of Rock insegna che attraverso i sentimenti di amore e di amicizia si riesce a guardarsi dentro e a vedersi per quello che si è. A volte la società ci costringe a indossare delle maschere; l’importante è non perdere mai di vista se stessi.

Ho visto nel curriculum che tu hai esordito nel cinema con Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina.

Si, ho fatto una parte in quel film.

Era una delle tue prime esperienze. Che aria hai respirato sul set?

Carlo Vanzina era proprio un gentiluomo, uno di quegli autori di una volta. È stata una bella esperienza, per quanto io avessi un piccolissimo ruolo, perché facevo la moglie del protagonista, Francesco Montanari. Ero molto intimorita, perché sapevo di lavorare con un nome importante, però ricordo tutto con grande divertimento.

Tra le tue esperienze televisive sei stata anche un personaggio importante della serie di Montalbano.

Si, la scomparsa di Alberto Sironi è stato un gran dispiacere. Non sapevo nemmeno che stesse male, perché nel nostro ambiente spesso non si dice. D’altra parte capisco anche l’importanza dei rapporti umani, perché secondo me non è neanche un caso che lui è Andrea Camilleri siano morti pochissimo tempo l’uno dall’altro.

Come si entra in una serie così popolare e collaudata? Immagino che come attore ci sia bisogno di adeguarsi a un format  già collaudato?

Devo dire che io quel set lo ricordo veramente con grande piacere, perché intanto aveva dei tempi che sembravano quasi cinematografici, non sembrava di lavorare a una serie. C’era l’attenzione al dettaglio e una troupe meravigliosa, capitanata da questo incredibile regista che era una persona di una eleganza e di una gentilezza d’animo davvero rare. Ricordo che organizzò questa cena di pesce durante le riprese; cucinò lui;. Era un cuoco meraviglioso e fu una serata molto divertente. Poi, devo dire che Luca Zingaretti è davvero un grande attore, nel senso che mi ha messo totalmente a mio agio; è uno che si mette a disposizione per costruire al meglio la scena.

Del tuo lavoro metti spesso in evidenza il buon comportamento di registi e colleghi. Vuol dire che non sempre si tratta di una cosa scontata?

Assolutamente, non è scontato, però mi sono convinta che le opere artistiche migliori siano anche il frutto del buon clima esistente sul set. Questa cosa è fondamentale. Se, per esempio, ti trovi a recitare una scena d’amore con un attore che ti sta sulle scatole, questo è un po’ più difficile, perché comunque al di fuori della scena devi trovare un minimo di empatia con lui. Non fraintendermi, non bisogna fare nulla di trascendentale, però è importante conoscere chi è il tuo partner di scena; non puoi pensare di usarlo semplicemente per interpretare il personaggio. Ci deve essere uno scambio reale tra gli attori e tra questi ultimi e il regista.

Nell’essere diretta che tipo di direzione privilegi?

A me piacciono quei registi che non sono troppo chiusi nella loro visione, che non pretendono di manovrarti come se fossi un burattino. Amo avere libertà di azione e il permesso di sperimentare i miei canali comunicativi. Secondo me, una delle migliori registe che abbiamo in Italia è Cristina Pezzoli. La considero un genio e penso che non passerà tempo che il suo nome sarà molto conosciuto.

Parliamo di una regista teatrale?

Si, lei è regista teatrale.

Leggo che per la Pezzoli hai interpretato Marilyn Monroe?

Si, con lei ho fatto uno spettacolo in cui interpretavo Marilyn Monroe che si intitolava Love is Blonde; era tratto dal bestseller di Joyce Carol Oates. Sul palco eravamo io e un’altra attrice, lei faceva Norma Jean, io Marilyn. Poi c’erano anche gli altri personaggi: Joe di Maggio, Miller e altri. Quella è stata forse l’esperienza più arricchente dal punto di vista artistico, perché davvero ogni sera sapevo di entrare in scena per iniziare un viaggio pazzesco. Cristina non è una a cui importa se ti muovi a destra e poi ti siedi. Ti dà totale libertà di azione e però riesce ad aprire i tuoi canali di comunicazione ottenendo da te la performance migliore.Vorrei aggiungere che la drammaturgia è di Argia Coppola.

Il personaggio di Marilyn è allo stesso tempo un mito e una persona reale. Rispetto a una figura così iconica e a una personalità così fragile come ti poni? Preferisci un’adesione mimetica oppure evocativa?

Ci siamo molto interrogate su questo argomento. Abbiamo studiato di tutto e di più; mi sono vista i suoi film e cercato tutte le interviste, ho letto libri, guardato fotografie. Mi sono molto documentata e, a un certo punto, è venuto fuori che cercare di fare un personaggio del genere attraverso l’imitazione è un po’ riduttivo, perché con una figura così iconica è impossibile.

Finisce per schiacciarti.

È impossibile non esserlo, perché è un’icona. Non essendo possibile ricreare Marilyn, mi sono chiesta quali sono i punti che mi accomunano a lei nella sua storia personale e quali sono i lati che me me allontanano. Diciamo che poi ho lavorato sulla parte fisica, provando a immaginarmi, attraverso l’utilizzo di immagini, a cosa potesse essere comparata nel modo di muoversi, di muovere gli occhi, di parlare, quindi sono veramente uscite delle cose per cui uno si dice che è assurdo interpretare un personaggio del genere. Però, per dire, una qualità che lei ha quando cammina è l’acquaticità, quindi mi sono immaginata un pesce nell’acquario, di quelli tropicali con le pinne che si muovono in quel modo. Lei aveva questo modo di muoversi molto liquido, non saprei come definirlo, ma è quello che mi ha aiutato nella costruzione del personaggio. Per quanto riguarda il modo di parlare, di cantare e di sussurrare le parole, mi viene in mente la voce di una bambina. Aveva questo modo molto sottile di parlare (nel dirlo Vera imita la voce di Marilyn in maniera perfetta, ndr) a cui mi sono rifatta e che mi ha aiutato. Poi, c’era la situazione emotiva della persona, quindi quello che ha subito durante l’infanzia, nella quale peraltro ho ritrovato cose simili alla mia. Il mix tra gli aspetti tecnici e quelli emotivi ha creato il personaggio.

Questo approccio che mi hai appena detto è lo stesso che utilizzi in generale per le tue interpretazioni?   

Diciamo che è una sorta di cortocircuito tra tecnica ed emozioni. Da una parte ricostruisco il tratto del personaggio che dipende da un vissuto diverso dal mio, dall’altro vado a pescare dentro di me quelle che sono le mie emozioni. Quest’ultima cosa è fondamentale per la genuinità dell’interpretazione. Se, per esempio, devo fare un personaggio che sta vivendo una situazione a me estranea andrò a ripescare dentro di me un’esperienza che in qualche modo gli si avvicini. Per fare questo lavoro devi sempre andare a riprendere cose anche spiacevoli che con il tempo si sono sedimentate nel tuo subconscio. Se mettessi in scena il mio vissuto personale non interesserebbe a nessuno, ma se riesco a farlo vivere all’interno della maschera del personaggio allora raggiungo l’obiettivo.

Non deve essere facile in termini di equilibrio psicofisico convivere con quella parte di te che avevi sepolto e dimenticato?

No, guarda, io faccio una vita assolutamente normale, lontana da quella che potrebbe essere un’esistenza bohémienne. Come attrice si tratta in fondo di raccontare una bugia che però è vera. Devi essere cosciente che appartiene a uno spazio di finzione, che può essere un set o il palco teatrale. Ovviamente, ha un’attinenza personale con me, però non me ne porto dietro gli strascichi emotivi.

Nella vita di tutti i giorni essere abituata a riflettere su te stessa e sugli altri, osservare e osservarti nel tuo essere nello spazio, ti dà una consapevolezza che molte persone non hanno.

Certamente, questo mi agevola rispetto a chi fa un altro tipo di mestiere, però alla fine non è una cosa che mi rende migliore o peggiore, non incide così nel profondo della mia persona. Magari, mi può capitare che per una frazione di secondo possa pensare a una similitudine tra un mio personaggio e ciò che sto vivendo. Ma non si va oltre questo.

Per finire, ti volevo chiedere qualcosa del biopic su Alberto Sordi, a cui hai partecipato e, ancora, quali tra attori, attrici e registi apprezzi maggiormente?

Quelli su Sordi è un lavoro a cui hanno partecipato un gran numero di attori. Io vi ho preso parte con un ruolo-cameo, solo per il piacere di partecipare a un personaggio così popolare nel nostro immaginario. Quando Luca Manfredi mi ha proposto di interpretare una ballerina, una bluebell di cui l’attore si innamora e che per questo scatena le gelosie della compagna dell’epoca, Andreina Pagnani, non ho avuto alcuna esitazione nell’accettare.

Ho visto una foto di Edoardo Pesce è la somiglianza con Sordi è straordinaria. 

Questo mi permette di rispondere subito alla seconda parte della domanda, dicendoti che Edoardo sta proprio nella top ten, perché è un attore camaleontico al punto di diventare esattamente il personaggio che deve fare. Lui riesce in maniera sublime ad andare a ripescare le sue emozioni e a farle vivere nella maschera del personaggio. Come lui c’è ne sono altri. Ti posso dire Luca Marinelli, già mio compagno d’accademia, Alessandro Borghi e poi c’è lei, la dea che venero più di altre e che è la mia aspirazione massima, e cioè Meryl Streep. Tra le attrici italiane Monica Vitti e Anna Magnani. La lista dei film, invece, è lunghissima: da Manhattan a Kramer contro Kramer, a Toro Scatenato, I vitelloni, Roma città aperta, Blue Jasmine, Chiamami con il tuo nome, Il divo, La grande bellezza. Penso che possano bastare, che dici?