Presentato in anteprima al Pesaro Film Festival 2025 è da qualche giorno nelle sale Il Primo Figlio di Mara Fondacaro, opera prima che affronta il tema della maternità sperimentando con abili forme narrative e generi cinematografici. Del film abbiamo parlato con Mara Fondacaro.
Il primo figlio è distribuito da Lo Scrittoio, Nightswim.

Mara Fondacaro e il suo Il primo figlio
Il Primo Figlio affronta un tema come quello della maternità che il cinema sta raccontando in maniera nuova per il coraggio di esplorarne anche gli aspetti più oscuri, quelli di cui un tempo non si poteva parlare senza intaccarne la versione edulcorata tramandata dalla cultura tradizionale.
Hai colto perfettamente il senso del film, ovvero quello di raccontare la maternità lontana dagli aspetti più rosei e felici. A me interessava focalizzarmi sulle zone d’ombra perché poi non è vero che la maternità è un periodo facile. Io non sono madre, però ne conosco tante e ho visto quanto sia difficile vivere quei nove mesi. Parliamo di una condizione che ti stravolge la vita. Secondo me siamo negli anni giusti per poter sfatare questi tabù e permettere almeno ai più giovani di avere dei modelli nuovi che possono sembrare anche sbagliati ma che di certo sono più vicini alla realtà.
In questo senso mi pare che l’utilizzo del genere horror sia congeniale per raccontare il malessere legato all’attesa di un figlio. In tale ambito la solitudine del personaggio femminile ti dava l’opportunità di mostrarla per quello che è ovvero come una condizione dalla quale la partoriente non può sfuggire anche avendo accanto a sé un compagno amorevole e attento.
Sì, assolutamente. Se ci pensi è un po’ paradossale perché si tratta di un periodo in cui hai sempre qualcuno accanto e nel quale dentro di te stai crescendo un’altra vita. Tutto questo non impedisce alla futura madre di sentirsi isolata. Non dipende dagli altri perché parliamo di un sentimento che nasce dentro di te. Hai a che fare con qualcosa di così totalizzante da non riuscire a pensare a ciò che hai intorno.

Isolamento e incomunicabilità
L’incomunicabilità che ne deriva è il risultato dell’impossibilità della protagonista di essere capita rispetto a ciò che sente. All’inizio Ada tenta di spiegare a Rino le sue visioni, poi si convince a tenersi tutto dentro.
Sì, esatto, infatti il film inizia proprio con una scena che per me rappresentava un’incomunicabilità che in Ada nasce anche dal senso di colpa. È una sequenza senza parole dove ci sono lei e Rino che compiono percorsi opposti senza guardarsi: lei cammina lungo la parte superiore del palazzo, lui di sotto. A quel punto è come se Ada allontanasse il compagno per proteggerlo dal baratro in cui lei è caduta.
Isolamento e incomunicabilità emergono con ancora più forza nella scena successiva in cui la mdp stringe sul volto della protagonista lasciando fuori campo le persone a cui sta parlando all’interno dell’aula universitaria. Senza la visibilità dei suoi interlocutori le parole che pronuncia sembrano cadere nel vuoto lasciando intuire il disagio della donna.
Il significato della scena è proprio quello perché per come è ripresa l’aula sembra quasi un bunker con il muro di pietra scuro dietro di lei che aumenta la sensazione di claustrofobia prodotto da un contesto in cui gli studenti sono quasi delle ombre.

Tutta la parte iniziale del film sembra volersi riferire all’inconscio della protagonista.
Infatti dico sempre che Il Primo Figlio è un incubo di novanta minuti perché è dentro quello che lo spettatore vede all’inizio del film. Anche i rumori della scena iniziale non sono quelli che sentiremmo normalmente. All’inizio c’è la sua passeggiata ma noi non percepiamo i suoi passi perché l’audio è già quello presente all’interno dell’aula. Insomma succede come quando i sogni si accavallano e l’inconscio prende il sopravvento.
Il paesaggio del film di Mara Fondacaro
In fondo anche la natura del paesaggio rurale in cui si svolge la vicenda è tutt’altro rassicurante, con la foresta immersa nella nebbia che rimanda all’ambientazione tipica delle favole gotiche.
In effetti il paesaggio non è molto rassicurante perché la maestosità della natura è tale da risultare insostenibile per un essere umano. Visto che parliamo di un personaggio schiacciato dalla sua stessa psiche volevo che la natura incombesse sulla casa trasformandola in una sorta di prigione.

La stessa cosa succede nell’ultima scena perché a fare da contraltare alla svolta positiva della vicenda è la rappresentazione tutt’altro che confortante della foresta in cui si svolge l’azione. Immersi nell’oscurità della notte i personaggi sembrano quasi fagocitati dalla vegetazione circostante.
Non voglio rivelare troppo di quella scena per non rovinare la sorpresa allo spettatore. Di certo si tratta di una passaggio che può essere interpretato in molti modi e questa è una cosa che mi piace quando guardo un film.
Alcuni momenti
Nel film il senso di colpa genera mostri. Ad affermarlo è anche la voce di Ada che commentando la sua stessa vicenda cita il pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard a proposito dell’ansia connessa con le conseguenze delle nostre scelte. In questo caso quella posta in essere dalla protagonista nel momento in cui decide di avere un figlio.
È proprio quello su cui si basa il film, ovvero sulla paura che accompagna le scelte più importanti. Le parole di Kierkegaard mi servivano per dichiarare fin da subito e in maniera chiara il mio intento.
Anche iniziare il film con il trasferimento dei protagonisti nella casa isolata è una dichiarazione d’intenti rispetto a quanto succederà perché è chiaro il rimando alle haunted house dei film horror. Quella di Ada e Rino vi appartiene di diritto per i drammatici ricordi che vi aleggiano.
Ritornare in quella casa è una scelta avventata che possono compiere solo genitori ancora giovani. Da qui la scelta di un cast di età non elevata che potesse giustificare una simile decisione. Poi è vero che nel film gioco con gli stilemi del genere horror e in particolare con quelli tipici della casa infestata.
Ad avvalorare quello che stiamo dicendo è il modo in cui riprendi i protagonisti all’interno della casa, immergendoli in un’oscurità che li fa diventare delle ombre.
Ada e Rino entrano nella casa come ombre e il fatto di mostrarli attraverso le loro silhouette equivale a farne intravedere la natura fantasmatica. Il fatto che tu l’abbia notato è una cosa bellissima.
La prima e la seconda parte
Nella prima parte, quando la realtà prevale sulla dimensione metafisica, il coinvolgimento è dato dal tentativo di riconoscere se ciò che vediamo è realmente accaduto o è solo la proiezione del trauma vissuto da Ada.
Si, nella prima parte preferisco non mostrare delle cose per entrare ancora di più nell’inconscio di Ada.
La cesura tra la prima e la seconda parte, quella in cui il film volge all’horror, penso si possa rintracciare nel lapsus di Ada che per errore pronuncia il nome del figlio sbagliato. Partendo da una chiave realistica la scena in questione trasforma un gesto quotidiano nella classica evocazione che fa precipitare le cose.
Sì, è esattamente quella scena che ho usato come spartiacque della storia. Tanto che subito dopo, quando i protagonisti tornano a casa, i ricordi iniziano a riaffiorare fino a materializzarsi nell’evocazione dell’altro bambino. A quel punto il dolore è talmente indicibile che solo il ricorso al sovrannaturale poteva raccontarlo.
La svolta arriva in maniera inaspettata, ma non inverosimile perché tu l’annunci seminandone le tracce nell’antefatto. Volevo chiedere se anche tu pensi che l’horror sia il genere più di altri capace di ragionare sulle paure collettive.
Sì, assolutamente, perché l’horror ha in sé gli strumenti per esorcizzarle. Nel mio film il sovrannaturale mantiene caratteristiche di realismo perché il bambino che lei vede è lo stesso che ha visto all’obitorio. Quella di Ada è una paura che nelle sue condizioni avremmo anche noi.
I protagonisti
Benedetta Cimatti e Simone Liberati avevano recitato insieme nel corto – Feliz Navidad – con cui Greta Scarano ha esordito alla regia. Anche in quel caso i loro personaggi facevano parte di una famiglia molto particolare.
Non sapevo che avessero già lavorato insieme. Ne sono venuta a conoscenza nel momento in cui si sono presentati al provino. Per quanto mi riguarda mi sono innamorata subito di loro. Li trovo veramente bravissimi, per questo spero che abbiano una grande carriera. Benedetta è un’eccellente trasformista, capace di poter interpretare qualsiasi personaggio. È brava a lavorare sul suo corpo e quando lo fa diventa irriconoscibile al punto che quando ho detto che la mia protagonista era la stessa attrice che aveva interpretato Rachele Mussolini in M nessuno mi ha creduto. Con Simone più che fare prove abbiamo parlato dei personaggi analizzandoli scena per scena. Scherzando con lui gli dicevo che è un maschio beta, cioè uno che non ha paura di soffrire. Al contrario di quello che succede in questo tipo di film volevo creare una figura maschile positiva e non un uomo che si rivela inadeguato a stare accanto alla crisi della propria compagna. Al contrario volevo un personaggio che prova ad aiutarla ma non ci riesce.
Parliamo del cinema che piace a Mara Fondacaro.
Sono onnivora. In generale mi piacciono i film che indagano le ombre della psiche umana perché poi avrei voluto diventare una psichiatra. Venendo a esempi concreti ammetto che mi piace molto il cinema horror. Penso a quello europeo dei nostri giorni e per esempio a Jennifer Kent e più in generale all’elevated horror, poi chiaramente Rosemary’s Baby è il film a cui ho fatto riferimento per Il primo figlio. Di quello ho inserito molti riferimenti. La badante a cui Ada chiude la porta in faccia era vestita come la vicina di case del film di Roman Polanski.