‘Atlantis’ il viaggio apocalittico di Valentyn Vasyanovych
La sezione Orizzonti di Venezia 76 aveva già riacceso i riflettori sulla vicenda ucraino russa con Atlantis di Valentyn Vasyanovych, apprezzatissimo montatore e direttore della fotografia dell’esplosivo The tribe (2014) di Myroslav Slaboshpytskkiy. Al cinema il film vincitore di Orizzonti
La sezione Orizzonti di Venezia 76 aveva già acceso i riflettori sulla vicenda ucraino russa con Atlantis di Valentyn Vasyanovych, apprezzatissimo montatore e direttore della fotografia dell’esplosivo The tribe(2014) di Myroslav Slaboshpytskkiy.
La pellicola è ora al cinema.
Dietro la macchina da presa Valentyn Vasyanovych ci immerge in una profezia a breve termine nel suo poetico e crudo atto di denuncia sugli effetti della guerra tra Ucraina e Russia.
Atlantis la trama
Siamo nel 2025 e Donbass è un deserto inospitale all’uomo e ad ogni altra forma di vita. Sergeij è un ex soldato, carico dei traumi per gli orrori che ha visto e commesso, fa fatica ad accogliere quello che è rimasto, rifugiandosi nella solitudine e nello scaricare pallottole su sagome metalliche. Un Paese colmo di ferite, non solo economiche, ma anche ambientali, Donbass. Quando la fonderia dove lavora viene chiusa, Sergeij si unisce casualmente alla missione volontaria Tulipano Nero, che si occupa di recuperare cadaveri di guerra. L’incontro con la volontaria Katya, una ex archeologa, è un tenue lenire il nichilismo e la chiusura esistenziale di Sergeij, incapace di abbandonare la sua terra nonostante tutto.
Viaggio apocalittico
Atlantis è il viaggio apocalittico di un dopoguerra e di ciò che lascia, nell’impossibilità ambientale di stare, di vivere. Sospesi in una dimensione atemporale (merito anche della splendida fotografia asettica e ‘grigia’ che contribuisce a renderci l’atmosfera da sopravvissuti), percorriamo luoghi devastati, impregnati dalle mine in una lotta impari per identificarle e farle saltare, attraversando miniere abbandonate, terreni incolti battuti da una pioggia incessante, in cerca di cadaveri da identificare e seppellire come ignoti difensori dell’Ucraina o ignoti soldati russi. All’inizio non è facile entrare dentro questo film spinoso, a volte statico, a volte troppo distante, a volte senza filtri (come la svestizione dei cadaveri in stato di decomposizione-mummificazione), ma ne veniamo rapiti, condividendo con Sergeij il nulla che lo circonda, il dolore che riecheggia in ogni luogo dove la macchina da presa penetra, attraversa, spia. Il senso di abbandono.
Il testamento di una terra destinata a non rifiorire più, lasciata a se stessa, devastata per sempre (il disastro ambientale in atto, la denuncia che preme di più al regista e il senso di questo film). Nello sguardo che Sergeij (e la macchina da presa) posa sulle sugli immobili bersagli-sagome di metallo riecheggia il platonico mito delle caverna, nelle terribili illusioni dell’uomo che celano una folle distruzione di se stesso e della terra che lo accoglie. Della vita.
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