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Conversation

Nella mente di una serial killer: conversazione con Carmen Di Marzo interprete di 14 – Wo(man)

Scritto e diretto da Paolo Vanacore, con le musiche originali di Alessandro Panatteri, 14 - Wo(man) è un monologo drammatico che racconta la vicenda di Giovanna Denne, una serial killer condannata all’ergastolo per aver ucciso con incredibile ferocia un numero imprecisato di uomini. Mattatrice assoluta, nei panni della protagonista, è Carmen Di Marzo, con cui abbiamo avuto modo di conversare all'indomani dell'anteprima romana

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Il personaggio di Giovanna Denne è ispirato alla più famosa serial killer inglese, colpevole di aver ucciso un numero imprecisato di uomini. L’attualità della sua esperienza umana è data anche dal presentarsi come una sorta di nemesi femminile rispetto al dilagante fenomeno dei cosiddetti femminicidi. È questa una caratteristica di cui hai tenuto conto nella tua interpretazione?

Assolutamente si. Quando ho visto il documentario su Joanna Dennehy mi sono resa conto che la sua era una vicenda di grandissima attualità. Da tempo desideravo raccontare una storia di violenza però volevo evitare il solito schema della donna vittima e dell’uomo cattivo: sono molto sensibile al fenomeno  dei femminicidi ma ero consapevole di avere a che fare con un argomento molto saccheggiato anche dal teatro. Cercavo qualcosa di originale e imbattermi in questo documentario è stata un’illuminazione perché mi ha fatto pensare alla possibilità di una storia moderna che, in qualche maniera, potesse raccontare l’uomo e la donna insieme, in una continua inversione di ruoli. Nel mio personaggio questo succede in un modo molto pericoloso, correlato anche alle dinamiche dei social e del web – altro tema di grande attualità – che, in qualche modo, istigano la violenza di questa donna.

Se cinema e televisione recepiscono lo spirito dei tempi, proponendo eroine mascoline e vendicatrici, tu vai in controtendenza offrendo un modello femminile di segno negativo.

Pensando a tutta la cronaca da cui siamo circondati potrebbe sembrare una provocazione parlare di una donna violenta, però Giovanna Denne oltre a non essere un’eroina e neanche una vendicatrice ha un’eccezionalità ancora più grande che deriva dal fatto di non poter collegare i suoi disturbi ad eventuali abusi. Di lei mi è interessato fin da subito lo scarto tra i trascorsi di un’infanzia apparentemente felice e la follia improvvisa che gli fa sviluppare un’insofferenza alle regole e una voglia di anarchia e di auto affermazione. In lei si sviluppano all’ennesima potenza temi come la dipendenza dai social e quella dal sesso.

A questo proposito, ho trovato efficace la rappresentazione della sessualità di Giovanna. Avendo a che fare con un argomento difficile da “mostrare” riesci comunque a preservare il realismo delle situazioni, adottando una linguaggio del corpo allusivo e,  in  alcuni passaggi, addirittura stilizzato.

Uno degli espedienti è stato quello di vestirmi da uomo per segnalare il capovolgimento dei ruoli; cioè, che nell’avere rapporti sessuali è lei ad assumere la posizione dominante, relegando i partner al ruolo svolto di solito dalla donna. D’altronde, abbiamo sempre a che fare con figure maschili facilmente soggiogabili e, nei fatti, pronte a recitare la parte femminile. Come attrice, la doppia personalità di Giovanna mi ha sedotta perché era difficile da fare ma, allo stesso tempo, interessantissima da indagare.

D’altronde, il carattere di Giovanna è talmente schizofrenico che quando la parte maschile prende il sopravvento ad andare in scena è un autentico femminicidio psicanalitico.

Ci tenevo a mostrare come la parte dominante prevaricasse la componente più fragile, che è quella femminile. La criminologa e la psicoterapeuta che mi hanno seguito in questo percorso mi facevano notare che anche in un assassino c’è una parte di luce che compare per alcuni istanti. A queste piccole fessure ho assegnato il compito di far parlare la componente femminile e la fragilità di questa infanzia perduta. Sono delle cose che ogni tanto escono fuori per poi essere fagocitate dalla parte oscura di cui Giovanna non riesce a liberarsi.

Al di là delle azioni delittuose, Giovanna è una ragazza dei nostri tempi, dunque molto attenta alla sua auto rappresentazione. Te lo dico perché, rispetto a un’interpretazione sobria e priva di cliché, la tua recitazione si correda di una teatralità derivata dal fatto che Giovanna, mentre parla, si esibisce a un ipotetico pubblico.

È proprio così! Diciamo che per riuscire a valorizzare la sua voglia di fama era importante l’aspetto dialogante, perché alla fine questa è una donna che ammazza per diventare famosa. Da qui la necessità di stabilire un rapporto tra lei e quel mondo esterno a cui anela e con cui vuole parlare. Il mezzo per eccellenza con cui farlo era la televisione, quindi si trattava di usare il meccanismo dell’intervista per il quale mi sono ispirata alle molte trasmissioni visionate in fase di preparazione.

In questo dialogo il mondo esterno rimane fuori campo, immerso nel buio della sala a cui la protagonista si rivolge. Dall’altra parte, a farle da interlocutore potrebbe esserci chiunque: dal direttore del carcere al presentatore di un programma televisivo, ai followers dei social, allo psichiatra che l’ha presa in cura. 

Esatto, lei parla alla televisione ma in realtà il suo interlocutore è un pubblico vasto, come quello che ad essa si rivolge ogni giorno per informarsi, guardare un film o seguire un evento sportivo. L’intervista, come forma di dialogo tra Giovanna e il suo pubblico, mi permetteva di rendere al meglio la voglia di apparire  sua e di milioni di persone che come lei hanno voglia di raccontarsi e di mostrarsi agli altri. Si tratta di un fenomeno dilagante che oggigiorno accomuna molte persone quindi, anche se “14” – Wo(man) parla di violenza, si tratta sempre di qualcosa in cui lo spettatore almeno in parte si riconosce.

Senza dimenticare che nel buio della sala siamo in realtà noi a dialogare con lei, con quello che ne conviene in termini di coinvolgimento ed empatia.

Certo, si rompe la cosiddetta quarta parete. A proposito di dialoghi quelli che fa con il medico diventano per lei una specie di specchio. In maniera estremamente dura e rigorosa lui le mostra quello che è. Non a caso, solo con lo psichiatra Giovanna riesce a tirare fuori la sua parte più intima e fragile. Un po’ lo fa anche davanti alle telecamere e nell’intervista in cui si parla di una bambina, però in tali situazioni tende ad esibirsi mentre con il medico è costretta a fare i conti con quella che realmente è. C’è poi il dialogo con se stessa, fatto prima di di addormentarsi, in cui lei parla con i suoi sogni. Insomma, i dialoghi ci sono e assumono le forme più diverse.

A cambiare è anche la postura. Con il medico è più composta, mentre nelle interviste alla televisione assume atteggiamenti da “bullo”, con le gambe larghe e il busto rivolto in avanti. Immagino siano dettagli a cui hai rivolto la massima attenzione.

Il lavoro fisico è stato molto impegnativo. Venendo dalla danza ho dovuto lavorare su me stessa e, in particolare, sul mio corpo, per eliminare un certo tipo di portamento, come può essere quello di tenere il collo alto e di valorizzare le linee lunghe. L’importanza di “sporcare” il mio tratto naturale è stata una priorità, ancor più della voce, delle parole e dell’interpretazione. Capire questo personaggio significava farlo anche attraverso le posture e il mondo in cui respirava. In base a questo, in realtà, si capisce il suo modo di sentire. Vedendo i vari documentari ho osservato un po’ le posizioni di alcuni di loro, sia delle donne che degli uomini, e ho notato che molti serial killer hanno sempre una figura molto pulita e ordinata. La sensazione che mi hanno trasmesso è che dentro i loro corpi non scorresse nulla.

Penso che tu abbia ragione, perché la stessa percezione si ha guardando una serie come Mindhunters. Anche in quel caso durante le interviste i vari serial killers sembrano corpi vuoti, del tutto privi di emozioni.

A me, per esempi,o ha colpito Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, che nel corpo e nella voce appariva gelido e privo d’espressione. Detto questo, io dovevo fare i conti con l’aspetto teatrale e, dunque, trovare un personaggio che tenesse il palcoscenico per cinquanta minuti, facendo in modo che il pubblico rimasse li a guardarlo: da qui la necessità di caratterizzare Giovanna con alcuni tic e attraverso l’incespicamento della bocca, particolare che, mi fa piacere dirlo, ho rubato in maniera dichiarata al provino fatto da Edward Norton per Schegge di paura. Se ti ricordi, lui fingeva di essere psicopatico e per fare notare il suo disturbo enfatizzava questa difficoltà lessicale. Quando poi si è trattato di utilizzare il mio di fisico, non essendo robusta di costituzione, ho dovuto fare un lavoro basato sulla tensione, irrigidendo il corpo e facendo in modo che, anche seduta, questo sembrasse sempre in movimento.

Interpretare un omicida seriale è di per se un’opportunità più unica che rara, anche perché la scienza conferma che si tratta di una patologia presente per lo più negli uomini. Mi viene dunque da dire che i modelli cinematografici a cui ispirarsi non erano numerosi: tra questi c’era la Aileen Wuormos di Monster e, più in generale, quali sono stati i tuoi?

Il film di Charlize Theron non mi incuriosiva più di tanto, perché la figura del serial killer era il risultato di una matematica della violenza: il comportamento della Wuormos era la reazione agli abusi da lei subiti. Al contrario, Joanna Dennehy è pericolosa perché imprevedibile. Del personaggio della Theron capisci la psicologia, mentre la cosa incredibile della prima è che il suo percorso mentale a un certo punto rimane un mistero. Sono stata ispirata tanto anche da La casa di Jack di Lars von Trier. Nel personaggio di Matt Dillon c’è il conflitto di un uomo che esercita il male, ma allo stesso tempo riesce a provare anche dei rimorsi. Lui tenta di risalire, ma la parte oscura è destinata a prendere il sopravvento.

La scenografia scarna, l’uso limitato della luce e la presenza di suoni distorti fanno dello spazio della messinscena un luogo dell’anima e di ciò che vediamo la rappresentazione dell’interiorità della donna. Questa dimensione è confermata anche dall’uniforme indossata da Giovanna: la sua non ha nulla della divisa carceraria, ma nella foggia e nella scritta sulla maglietta sembra la proiezione del suo ego distorto.

È andata proprio così. Il regista Paolo Vanacore voleva che questo spettacolo fosse in bianco e nero. A parte la luce del flash-back, un poco più ambrata per il suo riferirsi al tempo in cui ancora non erano stato commesso alcun delitto, questo è uno spettacolo dove si scende in un pozzo nero e in un luogo dell’anima. Da qui la necessità di immergere la scena nel buio e di caratterizzare Giovanna con la scritta Woman impressa sulla maglietta, simbolo esteriore legato però alla sua interiorità. C’è da dire che il testo era talmente forte che l’unico modo di affrontarlo era quello di lavorare per sottrazione. Da questo punto di vista, abbiamo fatto un lavoro cinematografico: se avessimo messo una scenografia più ridondante e colori più forti sarebbe diventata una roba pulp; avrebbe dato la sensazione che volessimo sottolineare qualcosa mentre noi volevamo andare all’essenzialità di quello che ci serviva.

Interpretare un ruolo del genere significa entrare dentro un universo oscuro e portarselo dentro fino all’ultimo spettacolo. Molti attori hanno spesso dichiarato la difficoltà di disfarsi dei propri personaggi una volta scesi dal palco.

In realtà, io mi immergo totalmente nel personaggio, però appena finisce lo spettacolo me lo devo scrollare subito di dosso. A rimanermi dentro è il percorso che ho fatto per arrivare fino a lì, ma una volta raggiunto il risultato non ho nessuna difficoltà a lasciarmelo dietro.

Quindi, tra uno spettacolo e l’altro per te non è un problema entrare e uscire da un personaggio come quello di Giovanna?

Qui si parla sempre del famoso paradosso dell’attore. Cioè, io mi calo in un personaggio ma faccio in modo che ci sia un occhio fuori di me che, in qualche modo, mi ricordi che sto recitando. Io vivo il mestiere come un modo per esplorare tutto ciò che c’è da sapere sull’uomo, quindi per me è un gioco, a volte anche difficile, perverso e faticoso. Quello che non mi abbandona mai è ciò che ho fatto per arrivare a fare un personaggio. Una volta raggiunto lo scopo è come se avessi un vestito che posso indossare e togliermi a mio piacimento.

Dove e quando il pubblico avrà modo di vedere lo spettacolo?

Dopo queste tre repliche presso La bottega degli artisti dove ogni volta mi piace debuttare con il mio nuovo spettacolo, ce ne sarà un’altra l’8 Giugno, poi, nella prossima stagione, lo spettacolo riprenderà a girare nelle città italiane. Non posso dirti dove perché stiamo chiudendo i contratti proprio in questi giorni.

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  • Anno: 2019
  • Durata: 50'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Paolo Vanacore