È un coinvolgente affresco storico accompagnato da una profonda riflessione esistenziale e spirituale il nuovo lavoro di Terrence Malick, A Hidden Life, presentato in concorso al 72 Festival di Cannes. Il regista statunitense mantiene tutti i tratti distintivi del suo stile e della sua poetica, sia per quanto riguarda la messa in scena che per lo spaziare attraverso argomentazioni che vanno al di là del filo narrativo, il porsi al di sopra di esso, o farne strumento per esporre le sue riflessioni. Fotografia sempre spettacolare, quindi, che valorizza la natura, in questo caso rappresentata dai bei paesaggi dei monti austriaci, voce fuori campo sempre presente, particolare focalizzazione. sia estetica che mentale. su valori a lui cari quali famiglia, coppia, fede. Elementi che in altri suoi film possono apparire eccessivamente enfatici e ridondanti, ma che in questo caso, date le argomentazioni trattate e il contesto narrativo scelto, non solo non sono disturbanti ma appaiono funzionali alla drammaticità e all’importanza del discorso, rendendo l’opera più suggestiva. Forse soltanto l’eccessiva dilatazione temporale può essere un elemento che rende il film un po’ prolisso: probabilmente il risultato sarebbe stato altrettanto o ancora più efficace se la durata fosse stata inferiore alle tre ore, anche se ciò non è un difetto che compromette in alcun modo la qualità dell’opera.
Malick sceglie di ispirarsi a una storia vera, ambientando il racconto durante la Seconda Guerra Mondiale, nell’Austria dominata dal regime nazista, guardando la situazione dalla prospettiva del soldato austriaco Franz Jägerstätter, interpretato da August Diehl, che, pur essendo obbligato dalla legge a giurare fedeltà a Hitler, rifiuta di sottostare a tutto ciò che sente non appartenergli, la violenza, la prevaricazione, l’uccisione di esseri umani innocenti, a tutto ciò che percepisce profondamente contrario rispetto al suo sentire e al suo essere, e per questo viene imprigionato, torturato e, infine, condannato a morte. Ed è nel contraddittorio che si sviluppa tra lui e tutte le persone che cercano di dissuaderlo durante questo calvario che si inseriscono le riflessioni del regista, che fa un discorso di forte impatto e di rara sensibilità, mantenendo la fede come perno centrale e unico faro in un mondo in cui non c’è più verità, in cui gli uomini non lottano più per essa, ma semplicemente “non ci fanno più caso”, in cui la Chiesa è del tutto asservita al Potere e i pochi che hanno opinioni diverse le esprimono sommessamente e in modo rassegnato (“Non creiamo più fedeli ma degli ammiratori”). Un mondo nel quale, però, esistono ancora degli uomini in grado di capire che in ogni essere umano alberga sia il bene che il male, che il sole brilla in modo identico per entrambi e che, soprattutto, non ha senso giudicare senza pietà chi fa del male, ma è soltanto mettendo in discussione se stessi che si può arrivare a tollerare anche ciò che non concepiamo e, forse, anche a poter sperare di cambiare qualcosa, perché soltanto vedendo le proprie debolezze si diventa in grado di capire quelle degli altri. Insomma, siamo fatti tutti della stessa pasta, abbiamo tutti la stessa anima, ed è nella capacità di accedere a se stessi che sta il segreto per poter sviluppare empatia e amore per gli altri esseri umani, invece che essere governati dall’egoismo, dall’orgoglio e dalla conseguente totale incapacità di vedere l’altro da sé, creando distanze incolmabili.
Ed è proprio su questo punto che Malick mostra come, purtroppo, esista un’imperante incapacità di connettersi, di accedere al proprio sentire e, automaticamente, a quello degli altri. Chi cerca di convincere Jägerstätter a ritrattare, a cedere e tornare indietro sui suoi passi accettando le regole imposte dal Furher, le stesse persone che lo criticano aspramente, cercando di capire le motivazioni per le quali un uomo possa arrivare a perdere la sua vita pur di non accettare di sostenere una causa in cui non crede, gli chiedono se sia una questione di orgoglio, se sia convinto di valere più degli altri o come possa pensare di portare avanti una convinzione del genere considerato che non ci guadagna nessuno. Tutti ragionamenti che denotano, in maniera sconsolante e dolorosa, quanto anche chi apparentemente non sostenga certe aberrazioni poi ragioni in modo del tutto egoistico, non sia in grado di andare al di là del proprio piccolo orticello limitatissimo e, di conseguenza, si aspetti che anche chi lotta per dei principi e dei valori diversi lo faccia per motivazioni egoistiche. Il mondo non si cambia, funziona così, non lo cambiamo noi, quindi non ha senso lottare per quello in cui crediamo, viene tristemente visto come una pazzia, come qualcosa di totalmente sconsiderato, rischiare la propria sicurezza per andare contro qualcosa che è più grande di noi.
Malick si fa testimone di questo conflitto alternando rassegnazione a speranza, anche la sua sembra la lotta disperata di qualcuno che non vuole rassegnarsi a un’idea statica in cui niente può evolvere o crescere, in cui non è importante cosa sia giusto e cosa no, non è importante essere leali con se stessi o fare del male a qualcuno, se tanto le cose funzionano già in un certo modo. Il regista sembra trovare unico conforto e ragione per continuare a credere e a comportarsi in base alle proprie istanze nella fede, anche se alla fine il protagonista del racconto mantiene i suoi propositi nonostante tutto, dimostrando che in realtà esiste qualcuno che non è rassegnato a girare nella stessa direzione in cui va il mondo per non contraddirlo o per non rischiare.