“The addiction”, ovvero la dipendenza, dovuta, probabilmente, a una fragilità che è croce e delizia, una sensibilità che consente di percepire il mondo più in profondità ma, al tempo stesso, espone fatalmente ad esso: definire quello di Abel Ferrara un “cinema delle dipendenze” – e, in tal senso, non possono non venire in mente, per l’appunto, film quali The addiction (1995) e lo splendido The Bad Lieutenant (1992) – forse è un po’ riduttivo ma non sbagliato, nella misura in cui viene colto un disagio che attraversa tutte la sua opera. Si potrebbe finanche ipotizzare che il ricorso agli stupefacenti possa aver contribuito ad amplificare la medianità dell’artista, la sua capacità di sprofondare negli abissi dell’animo umano, come pochi suoi colleghi contemporanei sono riusciti a fare. Ma Abel, l’uomo prima ancora del cineasta, è riuscito a svincolarsi dall’abuso di sostanze; recentemente ha avuto una splendida bambina dalla nuova compagna: insomma, un nuovo orizzonte di senso si è stagliato all’improvviso davanti a lui e, ne siamo persuasi, non mancherà di incidere notevolmente sul suo cinema futuro.
Dopo Piazza Vittorio, il documentario in cui si lanciava in una spericolata ricognizione antropologica del noto quartiere multi etnico romano in cui vive da anni (“a Roma – dice il regista – riesco a respirare”), Ferrara con Alive in France apre una gioiosa parentesi musicale, attraverso cui mostra ai suoi ammiratori la vena malinconica che percorre le sue melodie, composte insieme al fidato musicista e collaboratore Joe Delia, che costituiscono un elemento decisivo dei suoi film. Lo seguiamo nel suo tour francese, accompagnato dalla band con cui si esibisce prima a Tolosa e poi a Parigi. Oltre a Delia (tastierista), compare anche Paul Hipp, un ottimo chitarrista, visto in diversi lungometraggi di Ferrara (difficile dimenticare il suo Gesù ne Il cattivo tenente). Assistiamo a delle piacevolissime jam session, grazie a cui, oltre a godere della buona musica del gruppo – un blues catartico, particolarmente adatto ad essere puntellato da testi molto corposi – facciamo una maggiore conoscenza del regista che, proprio in virtù dei cambiamenti decisivi intervenuti recentemente nella sua vita, non esita a mostrarsi, a condividere con il pubblico la nuova, e forse insperata, felicità.
Ferrara canta, ride, scherza, si ferma a parlare con la gente, perché il suo è, anche e soprattutto, come da lui stesso affermato, “un cinema di strada”, che nasce dallo sprofondamento nel tessuto urbano delle grandi metropoli, che nei suoi film non fanno solo da sfondo ma forniscono una sorta di architettura esterna dei movimenti interiori dei protagonisti (si pensi ad Harvey Keitel che vaga in maniera spettrale negli spazi sconnessi di New York). Abel Ferrara nasce nel Bronx; il padre, figlio di immigrati italiani originari di Sarno, era un allibratore, che nonostante qualche guaio fece fortuna. Approcciandosi alla sua opera e ascoltando con attenzione, in Alive in France, i testi da lui scritti, si percepisce questa origine, che ha profondamente influenzato l’anima del regista, il quale ha saputo restituirne esemplarmente, il dramma, la malinconia e la poesia. Un passato che non solo non è mai stato rinnegato, ma con cui Ferrara torna ogni volta a confrontarsi.
Alive in France, in tal senso, appare come di una sorta di rivisitazione col senno di poi di tutto questo, a partire da una nuova e inaspettata fiducia nella vita che si intravede negli sguardi di Ferrara, nei suoi sorrisi, nel suo indugiare generosamente davanti alla macchina da presa, senza più sfuggire, finalmente, mostrandosi e mettendosi gioiosamente a nudo. Non crediamo di sbagliare ritenendo che questo nuovo film sia sorto proprio dal desiderio di condividere con il pubblico una bella rinascita, con l’intento, probabilmente, di esortare chi guarda a fare altrettanto. Anche quando tutto sembra perduto, d’altronde, la vita, ogni volta, magnificamente ci sorprende.