
Karpo Godina a Bergamo con lo staff del festival
Bello incontrare nuovamente Karpo Godina a distanza di qualche anno, dopo la fugace ma assai positiva esperienza alla Casa del Cinema di Roma, dove il sottoscritto era stato invitato a presentare alcuni suoi film. Lui si ricorda, chiedendo però che anno era di preciso. A memoria il 2014, ma sulla cornice ben pochi dubbi: il MedFilm Festival.
A Bergamo, in ogni caso, c’è stata la possibilità di visionare tutta la sua produzione filmica, per cui tante sarebbero le curiosità. Il tempo per l’intervista, in compenso, è abbastanza limitato, ma grazie anche all’assistenza tecnica e alle domande sulla sfera musicale di Michela Aloisi si svilupperà ben presto una bella conversazione. Un attimo prima che si cominci il sempre schietto, generoso e disponibilissimo Karpo, sistemandosi su una imponente sedia “come su un trono” (lo dice lui stesso, ridendo), ha ancora modo di scherzare un po’ con noi e di metterci a nostro agio. Adesso possiamo iniziare davvero. Pronti, via.
La mia prima curiosità è questa: ieri a Bergamo è stato proiettato Red Boogie, che purtroppo non avevo potuto vedere al MedFilm Festival e che ho invece recuperato qui. Oltre ad essermi piaciuto molto, vi ho ritrovato alcuni aspetti del tuo cinema che avevo già avuto modo di apprezzare, in particolare il conflitto tra l’artista e il potere, riferito a certi periodi della storia della Jugoslavia condizionati dalla censura di regime, nonché dall’imposizione di criteri vicini al cosiddetto “realismo socialista”. Considerando poi le tematiche affini emerse in altri tuoi film, vedi ad esempio The Raft of Medusa, cosa puoi dirci a riguardo?
La censura è un qualcosa che tutti noi cineasti jugoslavi abbiamo vissuto, nell’ambito del 1972. In questo periodo è il governo che ha inventato il nome della Black Wave yugoslava, “l’onda nera”. Prima di allora, registi come Dušan Makavejev, Aleksandar Petrović e altri ancora operavano senza censura. In quanto paese più libero dietro la Cortina di Ferro, la Jugoslavia aveva bisogno di un’affermazione come stato democratico anche all’estero. Per questo motivo, allora, hanno permesso di realizzare questi film che poi partecipavano a diversi festival stranieri, per essere subito accantonati non appena rientravano nel nostro paese. Dal momento in cui abbiamo oltrepassato il limite, nel 1972, hanno detto: stop, basta! A questo punto ci hanno forzato ad uscire dal paese, ad andare all’estero, e tutti questi autori sono finiti in America, Germania, Francia o altre nazioni…
Come Makavejev, per esempio?
Infatti, anche lui. Lazar Stojanović, che ai tempi aveva proprio questi cineasti come mentori ed era impegnato a realizzare il suo film di diploma, Plastični Isus (ovvero Gesù di plastica), è stato anche rinchiuso in prigione per tre anni.
Red Boogie allude proprio a questo periodo, pur risultando accompagnato da determinate musiche. Ma in ogni caso è al periodo in questione e a tali problemi che fa riferimento.
Nonostante quanto abbiamo detto finora, c’è da dire che successivamente, dopo la disgregazione del paese, gli eccessi nazionalistici e le guerre degli anni ’90, si è affermato anche in alcuni registi un diverso sentire, spesso definito “Jugonostalgia”. Abbiamo avuto modo di ascoltare le dichiarazioni a riguardo di uno dei due autori di Granice, Kiše, presente qui a Bergamo, ma nel recente passato avevamo avuto occasione di parlarne anche col regista di Parada…
Parada! Vuoi dire Makavejev, Parada diretto da lui?
No, no, in realtà parlavo di un film più recente, che evidentemente ha lo stesso titolo… quello del regista serbo Srđan Dragojević!
Ah, un film realizzato in questi anni… mi sa che non l’ho visto. (Karpo sorride bonariamente). Allora andiamo avanti.
Ecco, considerando anche lo spirito particolare del tuo corto, Litany of Happy People che ho rivisto qui a Bergamo, come ti poni rispetto a queste dinamiche, all’affiorare di sentimenti jugonostalgici?
Oggi il termine “Jugonostalgia” è abusato. Spesso con una accezione negativa. Io sono nato in un paese che si chiamava Jugoslavia, ed era uno spazio di vita. Era una combinazione di diverse culture, che si arricchivano tra di loro. Con la separazione della Jugoslavia sono usciti fuori sei piccoli paesi diversi, separati. A questo punto si sono ritrovati impoveriti dal punto di vista culturale. Quando uso l’espressione Jugonostalgia, per me significa che mi manca proprio lo scambio culturale tra le diverse aree dell’ex Jugoslavia. Cosa sta succedendo oggi? Proprio tramite la cultura lo spazio geografico dell’ex Jugoslavia si sta ricollegando.
Per finire, tornando a Litany of Happy People, un altro aspetto che ci ha colpito molto è la musica, la particolarità della colonna sonora. Come sei arrivato a scegliere quei brani?
Allora, prima sono state effettuate per intero le riprese, poi abbiamo scelto le sequenze da montare insieme e con tutti i ragazzi, ovviamente bevendo (risata generale), presa la chitarra si è cominciato a suonare alcuni pezzi per legare tra loro i vari frammenti. Infine ho seguito un certo ritmo per dar vita al montaggio conclusivo. Ah, questa band che ha collaborato con me l’ho scoperta a Novi Sad, nella Vojvodina evocata dalla canzone, ed hanno uno spettro espressivo molto largo, che va dal rock alla musica classica. Loro poi mi hanno seguito per tutti gli altri film.