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FESTIVAL DI CINEMA

Laissez bronzer les cadavres!, il nuovo film del duo registico Hélène Cattet-Bruno Forzani al ToHorror Film Festival

Giunta al suo terzo lungometraggio, dopo Amer (2009) e Lacrime di sangue (L’étrange couleur des larmes de ton corps, 2013), la coppia di registi Hélène Cattet-Bruno Forzani lascia momentaneamente il fantastico e gira un noir surreale e visionario

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Giunta al suo terzo lungometraggio, dopo Amer (2009) e Lacrime di sangue (L’étrange couleur des larmes de ton corps, 2013), la coppia di registi Hélène CattetBruno Forzani lascia momentaneamente il fantastico e gira un noir surreale e visionario, tratto dal romanzo di Jean-Patrick Manchette e Jean-Pierre Bastid pubblicato nel 1971 e da loro stessi adattato. Presentato in diversi festival europei, fra cui quello di Locarno dell’anno scorso, Laissez bronzer les cadavres! passa ora in concorso al ToHorror di Torino, l’appuntamento annuale che il capoluogo piemontese dedica al giallo e all’horror: senz’altro l’approdo migliore e più adatto per un’opera estrema e anticonvenzionale come questa.

A colpire lo spettatore è la ricerca formale costantemente e consapevolmente attuata dai registi nell’intera opera: la trama assume perciò un’importanza secondaria dinanzi alle scelte stilistiche che trasgrediscono volutamente le consuetudini di una messinscena e di una messa in forma convenzionale. Due sono gli elementi del linguaggio cinematografico attraverso i quali tale sovversione viene posta in atto: la regia e la fotografia. L’insistenza sui dettagli, quali la cenere incandescente di una sigaretta, o sui particolari, come gli occhi dei personaggi, l’uso sistematico di angolazioni abnormi (inquadrature plongée, contre-plongée e sghembe) e di tecniche di ripresa altrettanto inconsuete: panoramiche e carrelli che sostituiscono l’alternanza fra il campo e il controcampo, rifiutando così il montaggio e preferendogli la continuità spaziale e temporale della ripresa continua, se di piano sequenza vero e proprio, a rigore (almeno secondo la definizione propostane negli anni sessanta da Christian Metz in Semiologia del cinema) non si può parlare; minano dalle fondamenta la prassi di regia invalsa, dove la tecnica è al servizio della storia narrata e dei suoi sviluppi, e favorisce e anzi mira a conseguire, attraverso la propria neutralità e invisibilità, l’assorbimento diegetico dello spettatore. Se tali sono le caratteristiche della regia, sul piano della fotografia la sperimentazione raggiunge le punte massime, attraverso l’utilizzo di colori volutamente e violentemente antinaturalistici. Non si vuole, dunque, riprodurre fedelmente i colori naturali dell’ambiente dove il racconto si svolge, ma, al contrario, si tende a distorcere e violentare a fini espressivi la realtà del contesto ambientale. Verdi, gialli, blu, controluce (che anneriscono a tal punto la figura da renderla irriconoscibile), specie nei primi piani dei personaggi, manipolano e piegano la normale scala cromatica, quella che verrebbe rispettata in un’opera d’impianto naturalistico, alla ricerca stilistica e formale che anima e sostiene l’intero film e ne costituisce la vera ragion d’essere nonché il principale motivo d’interesse.

L’arte, attraverso gli strumenti precipui offerti dal proprio linguaggio, sottomette la realtà, nello specifico la normale visione dell’occhio umano, alla creazione di un universo narrativo dove i colori, così come il tempo, sono governati da leggi diverse da quelle naturali; leggi valide soltanto nella dimensione dell’opera artistica, dove l’autore è libero d’infrangere e rappresentare secondo la propria volontà lo spazio e il tempo. La manipolazione attuata dai registi non riguarda soltanto l’aspetto cromatico e quello della tecnica cinematografica (inquadrature, modalità di ripresa), ma investe anche la dimensione temporale, attraverso la frequenza di salti in avanti e in indietro nel tempo, prolessi e analessi, al fine di mostrare la medesima azione da prospettive differenti: da un diverso luogo, oppure vista dagli occhi di un altro personaggio, che su quella stessa azione necessariamente avrà, sia sul piano fisico della sua collocazione spaziale, sia su quello psicologico della sua emotività, una visione e un’interpretazione diverse e persino antitetiche. Distorsione della rappresentazione spaziale e temporale, come della normale visione umana: questi gli elementi, come si diceva all’inizio, che sostanziano l’opera e ne costituiscono la specificità. Ad affermarsi sono l’espressione libera e svincolata dal rispetto delle consuetudini su di un intento comunicativo convenzionale, che punti alla chiarezza e alla facile e immediata comprensione, il gesto autoriale e il segno stilistico sulla rappresentazione diretta e fedele della realtà: l’opacità soggettiva della forma, quindi, sulla trasparenza e l’impersonalità della comunicazione.

Ci si trova dinanzi a un’opera di ricerca e di genere insieme, quale raramente oggi se ne possono vedere. Il duo di registi ha fatto di tale connubio la propria cifra stilistica e marca autoriale, come i film sopra menzionati hanno già da tempo mostrato e sempre più nel tempo confermato. Un noir sperimentale, quindi, che plasma il genere con tale forza e vigore espressivi da trasformarlo in un continuo passaggio fra realtà e immaginazione, sogno e memoria (frequenti sono, infatti, le rappresentazioni mentali dei desideri, delle aspirazioni, delle paure e delle aspettative dei personaggi, e in tali sequenze la ricerca cromatica si fa ancor più decisa e determinante, con audaci accostamenti fra tonalità accese e vibranti come il rosso e l’oro). Pur nelle differenze, viene alla mente, come esempio di film di genere e sperimentale al contempo, Twixt (2011), ultimo film di Coppola, dove il genere horror (in particolare nella sua variante gotica) si univa a una sperimentazione formale che vedeva il bianco e nero alternarsi (e in alcune sequenze a convivere) col colore: il consueto formato bidimensionale con quello stereoscopico tridimensionale.

Sul piano attoriale, un parola va spesa per la scelta del protagonista, uno Stéphane Ferrara perfetto nel ruolo del capobanda, che in alcune scene (come quella che lo vede prendere la mira da una torre mezzo diroccata con indosso un giubbotto di pelle nera e il caricatore del mitra stretto fra i denti) assume una statura epica e capace d’imprimersi negli occhi e nell’immaginazione dello spettatore di molti villain tarantiniani.

Non manca poi l’omaggio, come sempre del resto nelle opere della Cattet e di Forzani, al cinema di genere italiano degli anni sessanta e settanta. Qui il tributo è da ravvisarsi soprattutto nella colonna sonora (ma non sono Suspiria e Inferno, e in fondo l’intera cinematografia di Argento e Bava, con la loro inesausta ricerca cromatica e sonora, film di genere e al contempo sperimentali, di genere e insieme d’autore?), quasi interamente composta di brani non originali tratti dai film italiani western, gialli e dell’orrore di quel periodo: due soltanto, fra i molti riconoscibili, vanno qui citati per la sapienza con la quale sono stati collocati in determinate scene, quasi fossero stati composti appositamente per quelle: Sunny road di Christophe tratta da Quando il sole scotta (La route de Salina, 1970, di Georges Lautner, con Mimsy Farmer, allora prossima a divenire una delle protagonista del giallo e dell’horror italiani) e Canto della campana stonata di Morricone, coro di voci bianche scritto per Chi l’ha vista morire? (1972, di Aldo Lado, con l’allora bambina Nicoletta Elmi, anche lei protagonista del genere), uno dei più bei gialli nostrani dell’epoca, che avrebbe anticipato di un anno, per ambientazione e tematiche, A Venezia.. un dicembre rosso shocking (Don’t look now, 1972, di Nicolas Roeg). La coppia di registi sembra dunque crescere e maturare col tempo, come quest’ultima opera indubbiamente dimostra.

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  • Anno: 2017
  • Durata: 92'
  • Genere: Thriller
  • Nazionalita: Francia, Belgio
  • Regia: Hélène Cattet, Bruno Forzani