Che il cinema francese sia impregnato di sensibilità femminile è un dato di fatto. Il RENDEZ-VOUS 2018, FESTIVAL DEL NUOVO CINEMA FRANCESE lo testimonia con una serie di titoli in cui a essere protagoniste sono donne di ogni età e provenienza sociale. In questo contesto la Masterclass di Valeria Bruni Tedeschi conferma la tendenza, offrendo allo spettatore l’opportunità di conoscere una delle figure più rappresentative del cinema francese e non solo.
Di seguito il resoconto dell’incontro attraverso i pensieri e le parole della protagonista
Su quanto mi senta cinematograficamente Italiana o francese non ho un unica risposta. La mia infanzia lo passata in Italia e anche ciò che non ricordo di quel periodo viene da qui. In Francia sono arrivata a nove anni ed è stato il luogo dove ho costruito la mia vita da adulta senza dimenticare le mie origini, rinsaldate dalla frequentazioni di amici e colleghi italiani. Sul lavoro questi due aspetti si mescolano, diventano una pasta strana che mi rispecchia in ciò che faccio. La particolarità è che nel recitare in italiano il corpo e le emozioni rispondono in maniera diversa rispetto a quando lo faccio nell’altra lingua. In questo senso si può dire che in me ci sono due attrici diverse.
Ci sono visi e sguardi che mi ispirano e quello di Anna Magnani è tra questi. Con il mio lavoro mi allontano spesso da me stessa e le sue fotografie mi danno il coraggio di essere me stessa e soprattutto di tornarlo ad essere.
Del personaggio de La pazza gioia mi rimane la possibilità di aver vissuto senza un super io onnipresente come c’è l’ho io nella vita. Beatrice ne fa a meno con una libertà che da allora mi porto dentro un po’ anche io. Dopodiché, l’incontro con Virzì rientra tra quelli dal quale sono uscita cambiata in meglio. Con lui mi sono sentita bene e anche se non lavoreremo più insieme rimarrà sempre tra i miei registi di riferimento.
L’incontro con Mimmo Colapresti coincide con l’inizio della mia carriera italiana perché è con lui che per la prima volta ho recitato nella lingua del paese dove sono nata. Fin dall’inizio mi ha spronato a trovare il modo per esprimere me stessa, facendomene sentire la legittimità non solo a parole ma con i fatti attraverso la partecipazione alla scrittura de La parola amore esiste. Da lì è nato il desiderio di scrivere e diventare regista. Sul versante francese, oltre a Yann Coridian che mi ha affiancato nella direzione de Une jeune fille de 90 ans ricordo con affetto Noémie Lvovsky, per la quale sono stata attrice e sceneggiatrice, cosi come Patrick Chereau, il padre simbolico del mio lavoro. Mi manca molto.
Quando mi occupo della regia di un film mi concentro più sugli altri che su me stessa, un po’ come succede al genitore con i propri figli. Così facendo, all’inizio delle riprese mi accorgo di essermi trascurata. Per ovviare al problema ne È più facile per un cammello… (2003) ho escogitato il rituale della sedia davanti alla quale immagino di vedere me stessa seduta e in ascolto delle scuse che mi faccio per non essermi occupata di me. Così mi ripetevo che ero bella e brava e che meritavo l’attenzione della regista.
Il rapporto con il teatro è bello ma selvaggio, più doloroso di quello che ho rispetto al cinema. La spiegazione sta nella sacralità per il palcoscenico trasmessami da Chereau. Succede che se faccio una cosa a teatro e la trovo di qualità media mi risulta più grave di quando accade la stessa cosa sul set. Dovrei imparare a desacralizzarlo un po’ perché quando mi chiedono di salire sul palco sono sempre molto esitante. Da spettatrice trovo che possa essere uno spettacolo potente e meraviglioso a patto che non risulti noioso.
Non so rispondere sul perché qualcuno abbia trovato nel mio cinema influenze anglosassoni. L’inglese l’ho studiato con difficoltà e ogni anno va sempre più regredendo, ciononostante sogno da sempre di lavorare con Woody Allen. Ora che in America sembra che nessuno voglia più lavorare con lui forse ho qualche speranza di essere scelta (ride). Per me lui e i suoi film sono come una medicina. Parlarne mi fa piacere, e i suoi lavori mi sembrano una delle gradi consolazioni alle difficoltà dell’esistenza
Non sono tanto corretta, infatti non mi ero ancora espressa sul movimento del #Me Too. Ne approfitto per dire che l’attenzione sui diritti delle donne ha portato un vento di libertà in tutti i mestieri. Personalmente nel lavoro non ho mai avuto problemi ne mi sono mai sentita costretta dai ricatti di altri. Ho sempre potuto decidere come volevo. Se salivo o non salivo nella suite del Ritz era una mia scelta. Per questo motivo non sono in empatia con il movimento della attrici e preferisco quello delle tante donne che lottano per determinare le scelte della propria vita.
Non amo i social, anzi devo dire che il mondo di internet non non entra per nulla nella mia vita. D’altronde, oltre a non avere il tempo, usarli mi prenderebbe energie che preferisco impiegare altrove. Se fossi costretta a farlo mi sembrerebbe un lavoro.
Come attrice l’obiettivo è quello di fare film altrettanto appassionanti come lo sono stati La seconda volta e La pazza gioia, dai quali sono uscita diversa da prima. La cosa però non dipende da me perché gli attori hanno bisogno di essere desiderati dai registi, quindi posso solo sperare che c’è ne sia di nuovo l’occasione. Amo scivolare dentro i codici e nella fantasia di autori che hanno una visione particolare del mondo, essere parte della loro creazione. C’è da dire che l’avanzare dell’età assottiglia la disponibilità dei ruoli quindi vedremo cosa succederà.
Affermare che da regista mi piace molto filmare gli attori è scontato mentre più interessante è dire che amo riprendere anche le persone normali. E’ capitato anche nel mio nuovo film, Les estivants, in cui ho messo davanti alla mdp professionisti come Valeria Golino e Riccardo Scamarcio, come pure famigliari, amici e compagni d’accademia che sono tornati a recitare dopo anni di digiuno. E’ stato un miscuglio che ha arricchito tutti e ha giovato al film.
Per interpretare una parte la preparazione varia a secondo del tempo che ho. Di base mi piacerebbe dedicarmi ad approfondire il personaggio per entrarvi dentro con calma ma spesso non è possibile. Per il film di Virzì avevo da fare con i miei bambini quindi il tempo è stato minimo e se devo dirla tutta, penso che il mio personaggio si sia nutrito del lavoro fatto a teatro con il testo da Le lacrime amare di Petra Von Kant. Prendo molto dai maestri per cui recito e poi uso molto il rituale della sedia attraverso il quale posso convocare persone scomparse come la mia coach e parlarle del mio ruolo. E’ un processo che mi è utile per trovare la giusta distanza dai personaggi.
Dicevo prima che il passare del tempo rende più difficile trovare ruoli di primo piano, forse perché nell’immaginario degli uomini il sogno è un sogno giovane mentre per quanto mi riguarda penso sia bello filmare visi di tutte le età. Trovo che ci sia qualcosa vertiginoso nel viso di una persona anziana.
Tra le doti dell’attore, oltre alla precisione, c’è quella di acconsentire all’essere filmati nel proprio segreto, di lasciar vedere qualcosa di sé, soprattutto di accettare di essere molto ridicoli. Spesso al montaggio mi accorgo che dopo il ridicolo nasce spesso un momento di grazia. Succede che la vergogna di aver girato una certa scena è tale da mettere l’attore in uno stato di vulnerabilità che diventa grazia. Perciò la propensione e il coraggio di essere ridicoli è una delle doti principali per un attore.