La pelle che abito, un film del 2011 diretto da Pedro Almodóvar basato sul romanzo Tarantola (Mygale) di Thierry Jonquet. Almodovar, affascinato dall’opera di Fritz Lang, inizialmente pensò di dirigere il film in bianco e nero per ricreare le atmosfere dei classici film noir. Il film è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2011. In Spagna è uscito il 2 settembre 2011, mentre il 23 settembre nelle sale italiane. Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet, Roberto Alamo.
Sinossi
Da quando sua moglie è rimasta completamente ustionata dopo un incidente automobilistico, l’eminente chirurgo plastico Robert Legard si è dedicato anima e corpo alle ricerche per creare una nuova pelle che gli permetta di curarla. Dopo dodici anni di sperimentazioni ottiene una pelle perfettamente sintetizzata, un’autentica corazza contro qualsiasi aggressione comunque soffice e sensibile alle carezze. Oltre agli anni di studi e sperimentazioni, Robert ha avuto bisogno di altre tre cose: nessuno scrupolo, un complice e una cavia umana; gli scrupoli non sono mai stati un problema; Marilia, la donna che si è occupata di lui fin dalla nascita è la più fedele delle complici e per quanto riguarda la cavia umana,
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Tre anni dopo Gli Abbracci Spezzati, Pedro Almodovar torna al cinema in una veste nuova: lascia il dramma per virare nettamente su toni horror, creando una delle pellicole più sconvolgenti degli ultimi anni.
Il sorprendente film del regista spagnolo si basa su un classico della letteratura del terrore: Frankenstein di Mary Shelley. Robert Legard infatti è una perfetta versione moderna con tanto di auto e villa di lusso, stimato dai colleghi ed esperto chirurgo nonché un uomo dall’incredibile fascino. Proprio questi aspetti attraenti e “comuni” contribuiscono a creare il senso di tensione in tutto il film, suggerendo che in ognuno di noi può celarsi un mostro.
Ed è soprattutto qui che Almodovar calca a buon diritto la mano, inserendosi con il suo stile e facendo deragliare il film dalle rigorose rotaie del genere, una mossa rischiosissima che solo un esperto conoscitore del Cinema, con la C maiuscola, può permettersi, per fargli prendere una direzione meravigliosamente inaspettata. Una rivoluzione che è il vero successo de La pelle che abito.
Così il regista spiega questa mossa spericolata: “Una storia con queste caratteristiche mi faceva pensare a Luis Bunuel, Alfred Hitchcock, a tutti i film di Fritz Lang (dal gotico al noir). Ho pensato anche all’estetica pop del terrore della Hammer, o allo stile più psichedelico e kitsch del giallo italiano (Dario Argento, Mario Bava, Umberto Lenzi o Lucio Fulci) e ovviamente al lirismo di Georges Franju in Occhi senza volto. Dopo aver esaminato tutti questi riferimenti, ho capito che nessuno corrispondeva a ciò di cui avevo bisogno per La pelle che abito. Per alcuni mesi ho pensato seriamente di girare un film muto, in bianco e nero, con i sottotitoli che riportavano descrizioni e dialoghi e rendere omaggio a Fritz Lang e Murnau. Dopo mesi di dubbi, ho deciso di prendere la mia strada e lasciarmi guidare dall’intuito, che in fin dei conti è quello che ho sempre fatto, senza l’ombra dei maestri del genere (tra le altre ragioni anche perché non so a quale genere appartenga questo film) e rinunciare alla mia memoria cinematografica. Sapevo solo che la narrazione doveva essere austera, priva di retorica visiva e niente affatto splatter, anche se si intuisce che, nelle ellissi che non vediamo, è stato sparso molto sangue.”
Un aspetto molto importante e a sua volta “scorretto” è la scelta di presentare i protagonisti a metà dell’intera vicenda, pratica comune nel cinema del regista di Volver, che in questo caso dona ancora più suspense; non solo, in tutta la sua filmografia questo espediente serve a sottolineare la forte convinzione del regista, e non solo, del fatto che il nostro passato e le vicende che abbiamo vissuto e subito hanno formato il nostro essere in tutti i sensi, sia psicologicamente che fisicamente.
Tornando a La pelle che abito, con questa sorta di riavvolgimento, il film appare composto da due film differenti, esasperando al massimo lo stordimento e lo straniamento degli spettatori che si trovano soli, storditi e indifesi di fronte al fascinoso ma micidiale Antonio Banderas, che ben accoglie nel suo corpo di sex symbol il personaggio di Robert Legard.
“Ho chiesto ad Antonio, in particolare per le scene più brutali, di privare il suo volto di ogni espressione […] Doveva mostrare non la malvagità del dr. Robert, ma la sua assoluta mancanza di sentimenti […] Psicopatici come il dr. Ledgard non sono sadici, non godono a infliggere dolore, semplicemente non sanno cos’è il dolore delle loro vittime”
La villa stessa dove vive e agisce il personaggio, isolata ma accogliente, riflette le caratteristiche temibili del proprietario di casa, tanto da essere il luogo perfetto per accogliere una storia del genere, alla pari del famigerato Bates Motel di Psyco.
A proposito di citazioni e ispirazioni bisogna tornare a sottolineare le forti ispirazioni per poi, da qui, arrivare sempre più a fondo nei sottotesti e nelle interpretazioni che in questo film pullulano come funghi nel sottobosco, tanto da poterlo definire un film multimediale, multisensoriale ma anche multi senso per le moltissime chiavi di letture
“È impossibile non pensare a Frankenstein. Non il film di James Whale, ma l’icona rappresentata dalla sua creatura. Mary Shelley, autrice del romanzo da cui sono tratti il film e il mito, definì il dr. Frankenstein il nuovo Prometeo, perché la sua creatura era trasformata con un insieme di parti diverse cucite insieme per un essere vivente grazie all’elettricità. […] Nel caso di La pelle che abito, la transgenica è l’equivalente del miracolo dell’elettricità duecento anni fa. Rappresenta la stessa cosa, un attacco al potere degli dei perché i due personaggi (il dr. Frankenstein e il dr. Ledgard) competono per qualcosa che per definizione è un dono divino, ovvero la capacità di dare la vita. […] Per il dr. Robert, eminente chirurgo e brillante e amorale scienziato, è meglio ricreare l’amata moglie Gal da un essere vivente (proprio come James Stewart del Vertigo di Hitchcock) che fare un patchwork con pelle e organi di vari cadaveri (come il dr. Frankenstein) […]. Il dr. Robert sa già, per esperienza, quanto può dare la pelle di un cadavere. “Il volto non è lo specchio dell’anima”, dice durante una delle sue lezioni, “ma della sua umanità”. Questo mostra che abbiamo un uomo che ha familiarità con la pelle dei morti e dei vivi, la pelle per il dr. Robert è la tela per un pittore […] in un certo senso, vedo me con le mie attrici e decido cosa le aiuterà a diventare “l’altra donna” per me. “
La pelle che abito è quindi un’opera densa di significati e interpretazioni che affonda le mani addirittura nella tragedia greca, specialmente quella di Eschilo, dove largamente erano affrontate tematiche come la vendetta, maledizioni che passano da padre, madre in questo caso, in figlio (vedi Orestea), l’amore malato per i figli (Giocasta, madre di Edipo) o lotta tra i fratelli (I sette contro Tebe), ma anche il mito di Prometeo, che abbiamo già citato, o di Pigmalione, abile scultore che si innamorò della sua statua; a loro volta, come nel gioco delle scatole cinesi, le interpretazioni psicoanalitiche trovano campo fertile con simbolismi persino nei nomi dei protagonisti e accenni neanche troppo velati alla sindrome di Stoccolma o alle possibili reazioni ad un lutto familiare che in questo caso dirompono potentemente.
Vi consigliamo caldamente il film di Pedro Almodovar che non si sottrarrà, come di consueto, a sconvolgervi e turbarvi, aspetto per nulla negativo considerando che uno shock, qualsiasi esso sia, produce un cambiamento, starà a Voi decidere come cambiare.
Se proprio dobbiamo trovare un difetto, un neo, nel film di Almodovar, è d’obbligo sottolineare l’ingombrante e anomala presenza di molti marche, certamente simbolo di stile eleganza glamour e lusso, ma che con un eccessivo “product placament” intorpidiscono e contaminano le inquadrature. A parte ciò, il giudizio è molto positivo.