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Film da Vedere

“La sottile linea rossa” di Terrence Malick: oltre la rappresentazione

La rappresentazione della morte portata all'eccesso dal regista si rovescia nella morte della rappresentazione: essa morendo ri-vela l'irrappresentabile. Malick riesce inaspettatamente a dis-chiudere lo spazio utopico (un luogo-non luogo) dove si può dispiegare una trascendenza incatturabile dalla rappresentazione e che pure presuppone la rappresentazione stessa con la sua insuperabilità ed intoglibilità

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La sottile linea rossa (The Thin Red Line) è un film del 1998 diretto da Terrence Malick, vincitore dell’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino nel 1999. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di James Jones, narra le vicende di una compagnia di soldati statunitensi impegnata nella conquista dell’isola di Guadalcanal nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale. È stato girato in gran parte nei luoghi originali del racconto, l’Australia e le Isole Salomone. Il titolo del film non si riferisce all’omonimo episodio della guerra di Crimea, bensì si deve a un verso di Rudyard Kipling: «Tra la lucidità e la follia c’è solo una sottile linea rossa».

Qui di seguito mi limiterò solo a fare qualche sottolineatura col fine non di spiegare il film, ma di condurre al suo senso così come farebbe un direttore d’orchestra nell’interpretare una partitura celebre.

Prima considerazione. Tra i due piani della natura e della luce (creata) si svolge la terribile vicenda umana – intendiamo riferirci alla guerra? Ma questo film di Malick non è un film di guerra, né tanto meno un film sulla guerra come se scopo del regista fosse quello di rappresentare la follia della guerra; ma non c’è più grande follia della follia della rappresentazione; è follia, infatti, pretendere che nulla possa sfuggire alla rappresentazione, nemmeno l’orrore della guerra. Ora girare un film sulla guerra (e ripeto non è questo il caso) comporta raccogliere in una forma (esteticamente caratterizzata) l’orrore con ciò redimendolo, giustificandolo anche se solo a livello estetico fino ad arrivare all’eccesso di mettere il belletto al cadavere straziato dall’esplosione di una granata, affinché risulti al pubblico pagante straziato ma in modo più efficace – in tal modo si sviluppa tutta una effettistica al fine di una miglior riuscita estetica. Ma allora l’opera sarà stata costruita con mattoni di carne che grondano sangue e questo è inaccettabile! Chi non si fa problemi a rappresentare l’orrore non sospetta minimamente quanto orrore ci sia nella rappresentazione in quanto tale. Ora il film di Malick non mette in scena l’orrore; in questo senso è osceno. Come dice Carmelo Bene: “Osceno vuol dire appunto, fuori dalla scena, cioè visibilmente invisibile di sé”.

Seconda considerazione. La prima impressione è questa: pare che la natura sia nella sua innocenza testimone di questa immane tragedia tutta umana come se non ne fosse toccata e nello stesso tempo come se ne venisse travolta. A volte sembra che le vicende umane siano guardate dal punto di vista della natura, anche se la natura nella sua innocenza non ha un proprio punto di vista, altrimenti non sarebbe innocente. Ma nel giardino dell’Eden c’è l’antico serpente: il film, infatti, si apre con l’immagine inquietante dell’alligatore subito seguita da riprese di alberi nodosi e dai tronchi intrecciati in maniera inestricabile, che ci fanno immediatamente pensare a due famosi alberi: quello della vita e quello della conoscenza. Ma ci viene subito in mente anche Kant, il quale afferma che da un legno storto com’è quello di cui l’uomo è fatto non può uscire nulla di interamente diritto (vedi gli Scritti politici). Anche la luce è una luce naturale, una luce creata, che sembra illuminare indifferente ed impietosa l’orrore. Eppure in non pochi momenti del film questa luce creata sembra essere segno di una luce increata che rappresentabile a rigore non è – come dice il salmista: “Alla tua luce vediamo la luce” (salmo 35,10).

Terza considerazione. Significativo è l’uso della voce fuoricampo che non è mai la voce del narratore onnisciente dei romanzi ottocenteschi, ma consiste in una polifonia di voci nessuna sovraordinata all’altra per cui non è corretto parlare propriamente di un narratore. Anche l’uso insistito del piano-sequenza pone l’occhio del regista non sopra le vicende narrate, ma al loro stesso livello (sto pensando naturalmente a Bachtin). Una menzione particolare merita il soldato Witt vero e proprio personaggio cristico. Il suo punto di vista è da una parte un punto di vista come gli altri, ma dall’altra parte è un particolare punto di vista perché non è tutto appiattito sulla situazione, ma la guarda per così dire obliquamente: non solo sta dentro la storia, ma sente di stare dentro quest’ultima. Egli è un personaggio cristico nel senso che è nel mondo, ma non è del mondo. Dai suoi occhi filtra la luce dell’invisibile. É una luce interiore che non può essere catturata dalla rappresentazione. La trascendenza non è qualcosa che sta dietro il suo volto, ma è il suo volto stesso come soglia tra visibile ed invisibile.

Quarta considerazione. Colpisce la differenza tra il modo del regista di riprendere la guerra e il modo di riprendere quelli che possiamo chiamare flashback (la madre morente del soldato Witt, oppure la moglie del soldato Bell). Se a proposito della vicenda principale del film possiamo parlare di rappresentazione, non lo possiamo più fare per quanto riguarda i flashback. Infatti nei flashback la macchina da presa non pone a distanza (di sicurezza) la cosa da rappresentare per meglio rappresentarla; tutt’al contrario: la mdp è troppo vicina e sembra che il regista non sappia più cosa riprendere.   La mdp ci presenta qualcosa senza potercelo o volercelo rappresentare: questo qualcosa è la vita.

Quinta considerazione. Colpisce il fatto che per buona parte del film il nemico non si veda. Il vero nemico, infatti, è la morte. Ricordiamo qui le parole di Paolo: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Corinzi 15,26). Il film, infatti, dopo il prologo, che potremmo definire “edenico”, continua con la cacciata da questo paradiso naturale del soldato Witt, colpevole di aver disertato, e si passa dalla natura alla storia, una storia di sanguinose guerre – la storia: quell’incubo da cui tutti noi ci vorremmo svegliare (come disse Joyce).

L’uomo cacciato dal paradiso precipita in questo inferno in terra che è la guerra, dove a dominare è la morte. Ed il regista si sofferma senza compiacimento o morbosità sulla morte nei suoi vari aspetti – sembra descrivere in maniera accurata ed insieme mossa da una profonda pietas una fenomenologia della morte: egli rappresenta la morte nei suoi vari aspetti. La morte come insensata; la morte come scelta; la morte come capace di dare senso alla vita; la morte nella sua inutilità; la banalità della morte; l’orrore della morte; la morte come ritorno al grembo materno; la morte come sacrificio di sé; la morte come omicidio; la paura della morte; la morte al di là della quale il nulla; la morte forte come l’amore; la morte come parte della vita; il momento della morte; la morte come tornare alla terra … Questa insistita rappresentazione della morte ci fa sentire la morte non solo come un limite di carattere esistenziale, ma anche come il limite della stessa rappresentazione a tal punto che siamo legittimati a parlare di una morte della rappresentazione stessa. La morte è il limite della rappresentazione: essa si ferma alla morte, non può andare oltre e proprio perciò che essa ci rivela l’irrappresentabile.

All’inizio del film sentiamo la voce fuoricampo  del soldato Witt che si interroga sulla visibilità o meno della immortalità e ricordando la morte di sua madre (morte sensata di contro alla morte assurda in guerra) capisce che deve guardare in faccia la morte perché è lì dietro che si va a nascondere l’immortalità. La rappresentazione della morte portata all’eccesso dal regista si rovescia nella morte della rappresentazione: essa morendo ri-vela l’irrappresentabile: la gloria, cioè quella luce inaccessibile che è Dio, che è il Bene. Questa gloria non si può, né si deve rappresentare, ma si può solo sentire. Tutto ciò che viene rappresentato viene con ciò stesso oggettivato e reificato e quindi ucciso o meglio: mortificato. Eppure c’è qualcosa che sfugge alla presa della rappresentazione; eppure c’è qualcosa che non può essere catturato dalla rappresentazione. In tal modo Malick riesce inaspettatamente a dis-chiudere lo spazio utopico (un luogo-non luogo) dove si può dispiegare una trascendenza incatturabile dalla rappresentazione e che pure presuppone la rappresentazione stessa con la sua insuperabilità ed intoglibilità.

Stefano Valente

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