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In Sala

This must be the place. Ecco perché non é un film da vedere

Perché l’ultimo film di Paolo Sorrentino non funziona? Perché manca “l’immagine”.

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Perché il film di Paolo Sorrentino This must be the place non funziona? Perché manca l’immagine.

Nonostante abbia riproposto, in un certo senso, il dispositivo utilizzato ne Il divo, dove, dopo la scanzonata passerella delle miserie italiane, assistevamo all’emersione del reale traumatico (la sequenza-confessione di Andreotti), il regista partenopeo, stavolta, non cincischia più, fa le cose sul serio, dilatando una sospensione temporale in cui far risuonare l’assenza; Cheyenne (Sean Penn) sembra l’Amleto dimesso e sconsolato di Laforgue, con il suo passo incerto e stanco, uno che vivacchia, e il film si assesta completamente sui suoi ritmi.

Una scelta evidentemente coraggiosa, che però non trova una compensazione adeguata.

Sorrentino lavora sul corpo dell’attore, facendolo passare attraverso un cerimoniale grottesco, che non produce un reale effetto di liberazione dell’immagine: insomma non riesce a dar corpo al fantasma (o meglio lo fa, ma non nella maniera corretta. Difficile, a proposito, non ricordare la sequenza finale de La dolce vita, quando tutti i personaggi indugiano presso la carcassa di un pesce-mostro).

Il padre di Cheyenne è stato in un campo di concentramento, dove ha subito una feroce umiliazione, un danno, che non ha trovato alcun risarcimento. Per questo motivo il rapporto con il figlio s’interrompe per trent’anni; è come se la sua autorevolezza  fosse stata irrimediabilmente compromessa. L’elaborazione della ferita richiede un tempo troppo lungo, che solo Cheyenne ha a disposizione. Ma la vendetta che si prepara è fatalmente insufficiente a ristabilire gli equilibri così fortemente alterati. Invece di uccidere il persecutore nazista, finalmente scovato, Cheyenne non può far altro che fotografarlo per sottrarlo all’anonimato e restituire le sue malefatte alla Storia.

Ma Sorrentino, giustamente, non si accontenta, vuole squarciare il velo (un po’ come il Don Chisciotte di Orson Welles, o, meglio ancora, come in Werckmeister Harmonies di Bela Tarr), e ciò che trova è solo il corpo aggrinzito di un vecchio rivoltante. Ecco il punto: non è questa l’immagine da ricercare, quella che può davvero liberare, redimere. L’orrore non può attualizzarsi nell’istantaneità di un’immagine, perché, in realtà, è sempre presente, quindi l’unico modo per disfarsene non è dargli corpo, ma trasfigurarlo, attraverso un lento processo di rovesciamento. Altrimenti rimaniamo ancora nello spettacolo, con tutto il suo fascino discreto. Ed ecco perché risulta più che mai fasullo, nel finale, il ritorno di Cheyenne, senza cerone, rossetto e tutto l’armamentario grottesco: chi ci viene incontro non è il protagonista redento, ma Sean Penn, in carne ed ossa, che sembra segnalarci proprio che lo spettacolo è finito.

 

 

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