Piccolo o grande che sia, ogni mondo cinematografico funziona e viene proiettato nell’industria come un iceberg, in cui ciò che vediamo sullo schermo rappresenta unicamente la parte emersa di una struttura molto più vasta, un’impalcatura composta da regole invisibili, storie che aspettano solamente di essere raccontate e popoli che esistono anche quando la macchina da presa non li osserva.
Il cinema, quando costruisce universi memorabili, non si limita difatti a mostrare luoghi, ma suggerisce profondità – più che spettacolarità – col fine di rendere credibile un mondo immaginario e permettere a quest’ultimo di adempire all’arduo compito di sopravvivere oltre la cornice volta a ospitarne l’essenza.
Tale lavoro, a volte intrinseco, a volte nascosto, ma sempre presente in una qualche maniera nei film, e, a maggior ragione, nelle pellicole che hanno governato e colorato le nostre infanzie, è definito nel gergo tecnico world-building, e vanta come padre fondatore un certo signorotto canadese di nome James Cameron.

Settimo potere
Se esiste un universo cinematografico che incarna in modo esemplare questa logica sommersa, questo è infatti proprio quello del suo Avatar. Con Pandora, Cameron non si limita a costruire un’ambientazione funzionale al racconto, ma dà forma a un mondo che reclama autonomia, profondità e continuità e che in Fuoco e cenere – terzo capitolo della saga, dal 17 dicembre sul grande schermo – vede la propria piena consacrazione. Grazie all’ultima fatica cameroniana, Pandora smette definitivamente di essere solamente un ambiente da esplorare e si erge definitivamente a sistema complesso, stratificato, attraversato da culture, conflitti, credenze e memorie. Un mondo che sembra esistere indipendentemente dalla storia che racconta.
Partendo dalla metafora dell’iceberg, questo articolo si pone dunque l’obiettivo di esplorare il world-building di Avatar attraverso i suoi strati nascosti – biologici, sociali e simbolici – mettendo in dialogo quest’ultimo con alcuni dei mondi più iconici della storia del cinema, da Il Signore degli Anelli a Star Wars, da Dune a Zootropolis. Per capire non solo come si costruisce un mondo, ma in che modo alcuni mondi riescono a restare nel nostro immaginario collettivo.
Per comprendere però come funziona un iceberg cinematografico, è bene dapprima sviscerarne la struttura implicita, strato dopo strato.
La superficie: ciò che il mondo mostra
La superficie dell’iceberg coincide con ciò che il cinema decide di rendere immediatamente visibile allo spettatore: ambienti, creature, costumi, colori. Pandora si offre allo sguardo come un’esperienza sensoriale totale: biomi estremi, nuove tribù Na’vi, elementi naturali che sembrano rispondere a logiche più mitiche che scientifiche. È lo stesso livello su cui operano mondi come Il mago di Oz o Harry Potter, il cui l’ingresso nello spazio narrativo passa attraverso lo stupore visivo e la promessa di un altrove tutto da esplorare.
Tuttavia, come accade anche ne Il Signore degli Anelli, la superficie non è mai fine a se stessa: è una soglia. Ad esempio, Cameron utilizza la spettacolarità non per esaurire il senso del mondo, bensì per invogliare lo spettatore a esplorarlo, suggerendo fin da subito che ciò che vediamo non è che una porzione limitata di un ecosistema più vasto. La superficie, in tal senso, non mostra pretesa alcuna di raccontare tutto, ma si trova invece a chiedere fiducia allo spettatore, invitando quest’ulltimo a credere che dietro ogni montagna, villaggio o creatura esista una continuità invisibile pronta per essere sviscerata.
La Terra di Mezzo: le regole che tengono in piedi il tutto
Scendendo sotto la superficie, il world-building rivela la sua vera natura, mostrandosi a tutti gli effetti come un sistema di regole capace di rendere il mondo coerente nel tempo. In Fuoco e cenere, Pandora non è più soltanto un ambiente naturale, ma un intreccio di culture, rituali, gerarchie e conflitti interni. Le diverse popolazioni Na’vi non sono varianti estetiche, ma comunità con visioni del mondo divergenti, spesso incompatibili tra loro. È qui che il lavoro di Cameron dialoga apertamente con universi come Dune o Zootropolis: mondi in cui la geografia determina la politica, l’ambiente plasma l’etica, e ogni scelta narrativa sembra derivare da una struttura preesistente.
Come in Star Wars, dove la Forza funziona da principio metafisico totalizzante, anche Pandora è governata da leggi che non vengono sempre spiegate, ma che respirano il movimento implicito dei suoi molteplici ingranaggi. Questo livello dell’iceberg è quello che permette allo spettatore di intuire che il mondo potrebbe continuare a esistere anche senza i protagonisti: una qualità fondamentale per ogni universo narrativo che aspiri a essere credibile e non meramente decorativo.

Il Sottosopra: quello che il cinema non dice
Nel punto più profondo dell’iceberg si trova ciò che raramente viene mostrato: le storie non raccontate, le conseguenze invisibili, il tempo che scorre al di fuori della narrazione principale. Avatar – Fuoco e cenere suggerisce un mondo capace di conservare memoria, traumi e cicatrici, oltre che di muoversi indipendentemente dallo sguardo umano. È una strategia simile a quella de I Simpsons, dove Springfield sembra infinita perché continuamente riscritta, o de Il Signore degli Anelli, dove la storia precede e supera i personaggi in un arco narrativo dal larghissimo respiro.
Cameron costruisce e dirama in Pandora un abisso fatto di mitologia implicita, evoluzioni future solo accennate, e di equilibri destinati a rompersi. È qui che il world-building smette di essere un esercizio tecnico e diventa una vera e propria dichiarazione di poetica: il mondo non è al servizio della trama, ma il contrario. In questo spazio profondo, Pandora diventa qualcosa di raro nel cinema contemporaneo: non un universo “espandibile” per necessità industriale, ma un organismo vitale in piena salute.
Il vaso di Pandora
Come accarezzato nelle righe antecedenti, Pandora rappresenta uno degli esempi più ambiziosi di world-building nel cinema contemporaneo, non tanto per la quantità di elementi messi in scena, quanto per la coerenza globale che funge da collante per l’intero sistema narrativo. A differenza di molti universi cinematografici costruiti per espansione seriale, Pandora nasce come un organismo unitario, in cui biologia, cultura e spiritualità sono interdipendenti. Ogni forma di vita — dalla flora alle creature più imponenti, fino ai Na’vi — risponde a un principio di connessione che non è solo narrativo, ma strutturale.
Eywa, più che una divinità, appare come l’espressione di una rete ecologica e mnemonica che conserva e trasmette memoria, rendendo il pianeta un archivio vivente che fonde nella religione anima e corpo. In Fuoco e cenere, questa visione si complica ulteriormente: Pandora non è più solo il luogo della purezza perduta o dell’armonia originaria, ma uno spazio attraversato da fratture interne, differenze culturali e conflitti pronti a rompere un’armonia in auge da tempo immemore.
Nuove regole
Le nuove popolazioni introdotte non ampliano semplicemente il mondo in senso geografico, ma ne mettono in discussione l’unità morale, suggerendo che anche un ecosistema “perfetto” può generare attriti, violenza e contraddizioni, esattamente come succede ogni giorno nella vita reale.

Ciò che distingue Pandora da altri mondi cinematografici è la sensazione costante che il pianeta esista, indipendentemente dallo sguardo umano: Cameron costruisce un world-building che non si limita a sostenere l’azione, ma la precede e la supera. Le regole biologiche influenzano i rituali, i rituali informano la politica, la politica genera conflitti: una catena causale che rende ogni evento narrativo una conseguenza e non un arbitrio.
In questo senso, Pandora si avvicina più a un modello scientifico che mitologico, pur conservando una forte dimensione simbolica. Fuoco e cenere accentua questa direzione, spingendo il mondo verso una maturità tematica in cui il dualismo tra colonizzatori e colonizzati si arricchisce di sfumature, e il pianeta stesso diventa terreno di scontro non solo tra specie, ma tra visioni del mondo. Pandora, così, non è semplicemente l’ambientazione di Avatar, bensì il vero protagonista della saga, nell’ottica di un mondo che cresce e cambia continuamente, lasciando allo spettatore la sensazione di aver osservato solo una frazione di qualcosa di immensamente più vasto.
The show must go on
Entriamo quindi nei meandri del discorso affrontato fino a questo momento e analizziamo uno per uno i casi di world-building più iconici e efficienti della storia del cinema:
Il world-building de Il Signore degli Anelli rappresenta forse il modello più “verticale” e stratificato della storia del cinema. La Terra di Mezzo non nasce tanto per sostenere una trama, quanto per custodire all’interno di essa una mitologia determinata a precederla: nella creatura targata Peter Jackson tale profondità non viene mai esibita in modo didascalico, ma suggerita attraverso rovine e nomi che rimandano a un passato ormai irrecuperabile. Il mondo sembra sempre più antico della storia che racconta: proprio tale sensazione di stratificazione temporale finisce per rendere credibile l’intera impalcatura.
In questo senso, Tolkien costituisce un antecedente diretto del metodo Cameron: anche Pandora, come la Terra di Mezzo, è un mondo che non si esaurisce nel presente narrativo, ma porta addosso i segni di una lunga evoluzione, naturale e culturale. La differenza sta nello sguardo: se Tolkien guarda al mito come fondamento, Cameron guarda al proprio ecosistema come un principio originario maggiormente disegnato nel presente.
La magia dell’insieme
Il caso di Harry Potter è emblematico di un world-building che si costruisce a braccetto con il piacere e la magia di una scoperta potenzialmente replicabile nel lungo termine. Il mondo magico non viene mai mostrato nella sua totalità, ma si rivela gradualmente nell’arco dei suoi prodotti audiovisivi, seguendo nello specifico il punto di vista del protagonista e portando lo spettatore a crescere assieme. Hogwarts, Diagon Alley o il Ministero della Magia esistono come spazi coerenti, ma la loro profondità nasce soprattutto dalla continuità dell’esperienza: regole, rituali e istituzioni diventano familiari perché reiterate nel tempo all’interno di un’atmosfera a dir poco unica nel suo ambito.
A differenza di Avatar, qui il mondo è fortemente antropocentrico: esiste in funzione dei personaggi e delle loro dinamiche emotive. Eppure, la forza della saga risiede proprio nella sensazione che il mondo magico continui a vivere anche fuori campo, con le sue burocrazie, tradizioni e contraddizioni interne. Un principio che Cameron riprende, ma spinge allo stesso tempo oltre, liberando il world-building dalla necessità di essere costantemente mediato dallo sguardo umano.

Governare lo spazio
Star Wars introduce un’idea di world-building radicalmente diversa: quella dell’universo come porzione osservabile di qualcosa di immensamente più grande. Fin dal primo film, lo spettatore ha la sensazione di essere entrato in una storia già iniziata, in cui eventi, guerre e leggende nascono come pretesto narrativo per poter godere per ore e ore dello spettacolo visivo proposto da George Lucas. Pianeti, razze e sistemi politici compaiono e scompaiono senza spiegazioni esaustive, creando un senso di vastità e apertura che mai sconfina nella dispersività bensì illumina gli occhi e delizia la fame di curiosità del singolo.
È un world-building orizzontale, basato sull’espansione e sulla moltiplicazione dei luoghi, più che sulla profondità storica. Cameron dialoga apertamente con questo modello, ma allo stesso tempo decidendo di rielaborarlo: se Star Wars suggerisce l’infinito attraverso i suoi molteplici strati, Avatar lo costruisce attraverso la coerenza interna di un singolo pianeta. Due strategie opposte per ottenere lo stesso risultato: far percepire allo spettatore che ciò che vede è solo una minima parte del tutto.
Il mondo come sistema sociale
Zootropolis è uno degli esempi più sofisticati e sottovalutati di world-building all’interno del cinema contemporaneo. La città è costruita come un sistema perfettamente funzionante, in cui ogni quartiere e razza animale si trova a rispondere a esigenze biologiche e culturali specifiche. Il mondo non è solo sfondo, ma vero e proprio dispositivo narrativo in cui la convivenza tra specie diverse assumere le fattezze di una metafora di dinamiche sociali, politiche e razziali. Come in Avatar, l’ambiente determina i comportamenti e i conflitti, e ogni scelta architettonica o climatica ha una funzione narrativa precisa.
La differenza risiede nel tono: Zootropolis rende esplicito ciò che Cameron preferisce suggerire, promettendo una città apparentemente molto diversa da quella presente nelle nostre routine, ma in realtà molto affine sul suolo culturale e politico. Tuttavia, anche Byron Howard, esattamente come il suo collega, condivide una visione del mondo come organismo complesso, in cui la società non è separabile dallo spazio che la ospita.

Quando il paesaggio diventa narrazione
Con Dune, il world-building diventa esplicitamente una questione di ecologia e potere. Arrakis non è solo un pianeta ostile, ma un ambiente che determina l’intera struttura politica e religiosa dell’universo narrativo. Ogni aspetto del mondo — dai vermi delle sabbie, fino ai Fremen — è interconnesso in un equilibrio quanto mai intricato e fragile. In questo senso, Dune è forse il parente più stretto di Avatar: entrambi pongono l’ecosistema al centro della narrazione, trattandolo come un soggetto attivo e non come uno sfondo neutro. Tuttavia, se Herbert (e vien da sé, Villeneuve al cinema, con vividissimo rispetto per l’esperimento tentato dall’oggi compianto David Lynch nel 1984) utilizza il mondo per riflettere sul controllo e sul destino, Cameron lo usa per interrogare il rapporto tra colonizzazione, convivenza e distruzione. Due visioni complementari del medesimo problema.
Il mondo de Il mago di Oz è uno dei primi esempi di universo cinematografico concepito come esperienza totale. Oz non è costruito secondo regole realistiche, ma secondo una logica fiabescamente purissima. Ciò che conta non è la coerenza interna, bensì la forza dell’immaginario: eppure, è proprio in tale apparente fragilità che Oz incontra uno dei suoi modelli fondativi, dimostrando che un mondo funziona proprio quando possiede un’identità riconoscibile, anche e soprattutto al di là della sua mera verosimiglianza con impalcature reali. Sebbene Cameron si collochi all’estremo opposto, puntando su una coerenza quasi scientifica, in fondo l’obiettivo si presenta come lo stesso: creare un altrove che lo spettatore possa attraversare e ricordare. Se Oz è la superficie dell’iceberg, Avatar ne esplora l’abisso.

L’altra faccia del quotidiano
Springfield è forse il mondo più paradossale del cinema e della televisione: statico e al tempo stesso inesauribile. Ne I Simpsons, il world-building non segue una logica di realismo o continuità, ma di espansione potenzialmente infinita. Personaggi secondari diventano protagonisti, luoghi marginali si trasformano in centri narrativi, la città si riscrive costantemente senza perdere identità. È un world-building “elastico”, che dimostra come un mondo possa essere credibile anche senza una coerenza temporale rigida.
Cameron non adotta questo modello, ma ne condivide una qualità fondamentale: l’idea che un mondo debba avere più storie di quante ne possa contenere un singolo racconto. È questa peculiarità narrativa a rendere Pandora, come Springfield o banalmente nella Quahog dei cugini Griffin, un luogo che sembra non esaurirsi mai.

Il world-building di Stranger Things si fonda su un principio di frizione: l’esistenza di un mondo altro che non sostituisce il reale, ma lo contamina dall’interno. Hawkins non è un luogo fantastico in senso tradizionale, è uno spazio ordinario progressivamente eroso dall’Upside Down, una dimensione parallela che deforma il mondo conosciuto. La forza della serie non risiede tanto nella complessità del suo universo alternativo, quanto nel modo in cui esso interagisce con il quotidiano, trasformando ambienti familiari in zone di pericolo e mistero.
A differenza di Pandora, il Sottosopra non possiede una cultura autonoma né una società articolata: è un ecosistema ostile, quasi parassitario. Tuttavia, Stranger Things condivide con Avatar un elemento cruciale del world-building contemporaneo: l’idea che un mondo non debba essere completamente spiegato per risultare credibile. Il non-detto, l’incompiuto e l’inaccessibile diventano così parte integrante dell’esperienza dello spettatore, arricchendo la narrazione e allo stesso tempo giocando con lo spettatore con regole ardite e pronte ad essere scoperte. .