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‘Le città di pianura’ conversazione con Francesco Sossai

'Le Città di Pianura' di Francesco Sossai continua il suo percorso negli schermi italiani riservando ulteriori sorprese

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Presentato nel Concorso Fuori dal Giro del Festival del Cinema di Porretta Terme 2025 Le Città di Pianura di Francesco Sossai è lungi dall’esaurire i suoi motivi di interesse in un’unica visione meritando ulteriore considerazione per la stratificazione di immagini e narrazione. De Le Città di Pianura abbiamo parlato con Francesco Sossai.

Le città di pianura è stato in concorso a Cannes 2025 nella sezione Un Certain Regard. E’ distribuito nelle sale da Lucky Red. 

Francesco Sossai e il suo Le città di pianura

Montare la prima e la seconda sequenza del film senza soluzioni di continuità equivale a raccontare un mondo a due velocità. Il falso movimento dei protagonisti addormentati dentro la macchina nel pieno della notte fa da contraltare al moto continuo del padrone della fabbrica. La differenza di velocità che attraversa Le Città di Pianura è il riflesso dello scarto esistenziale che esiste tra chi cavalca il progresso e chi rimane indietro. 

La velocità del Cavaliere interpretato da Roberto Citran è la stessa della fantasmatica autostrada che dovrebbe unire Lisbona, Treviso e Budapest. Identificandosi con l’infrastruttura il padrone della fabbrica è del tutto disinteressato ai problemi del territorio. Non a caso è l’unico che guarda il paesaggio dall’alto confermando la sua alterità rispetto alla realtà circostante. Succede un po’ la stessa cosa anche ai due protagonisti quando alla fine del film si fermano a guardare il gelato schiacciato dalle ruote delle macchine che sfrecciano sulla strada.

L’immagine di quel gelato suggella la storia nella consapevolezza di una trasformazione in atto, quella che in nome del progresso trasforma il territorio secondo bisogni che non hanno nulla a che fare con quelli della gente.

Sì, mi sembra che sia un tratto comune delle vite di oggi, nel senso che non ci viene più data la possibilità di vivere al ritmo che vogliamo ma dobbiamo adeguarci a quello che ci viene imposto. Carlobianchi e Doriano cercano in qualche modo di scardinarlo mentre Giulio ne è completamente preso, impegnato com’è a correre da una parte all’altra. Incontrandoli capirà la loro piccola rivoluzione e in qualche modo la condividerà. L’immagine di Carlobianchi e Doriano addormentati dentro la macchina ancora accesa è la testimonianza della loro raggiunta autonomia.

Destino comune

In questo senso mi sembra che il film riprenda la filosofia presente ne La Ginestra di Leopardi e ne La Peste di Albert Camus perché Le Città di Pianura è un film su una solidarietà che nasce dalla consapevolezza di un destino comune. Travolto dalla frenesia della modernità Giulio rischia di perdere di vista le cose che contano. Carlobianchi e Doriano se ne accorgono e, seppur alle prese con i loro problemi, lo aiutano a ritrovare se stesso. 

Il mondo raccontato nel film è quello di una società distrutta e nuclearizzata dove in giro non c’è traccia di essere umani. C’è gente solo dove si beve, per il resto ciò che si vede sono automobili che passano. Dunque quella di Carlobianchi e Doriano è una forma di resistenza e se vuoi anche di un’utopia basata sul provare a stare insieme.

Le premesse del tuo film mi hanno ricordato quelle di Nebraska di Alexander Payne. L’immagine iniziale di Bruce Dern che cammina faticosamente a fianco delle macchine che gli sfrecciano accanto rimanda a quella doppia velocità di cui parla la tua storia. 

In realtà è un film che non ho ancora visto. Se parliamo di reference ti dico che una è stata quella di Fantozzi per la presenza di quel tipo di racconto industriale italiano che ho sempre trovato molto efficace nel descrivere la realtà della fabbrica e in generale del tessuto produttivo italiano. Nel trasportare tutto questo nella mia regione il film con Paolo Villaggio mi ha aiutato a capire come potevo ironizzare sullo status divino di certe figure imprenditoriali come quella del personaggio interpretato da Citran.

A un certo punto la narrazione si concentra su una fantomatica ricerca del tesoro e come altre volte anche nel suo esito finale si ritrovano i segni della trasformazione del territorio a scapito di chi vi abita. In tal senso guardando il film mi sono venuti in mente due film di Alessandro Rossetto – Piccola Patria ed Effetto Domino – in cui del Veneto si raccontava un po’ la stessa cosa, ovvero le conseguenze dei cambiamenti produttivi, sociali e culturali avviati dall’intervento della grande finanza e dell’industria su quel territorio. 

Non è possibile fare un film in Veneto senza parlare di questo argomento e cioè della continua trasformazione e dello sfacelo a cui assistiamo davanti ai nostri occhi. Magari lo si fa con forme diverse ma l’aria che si respira è sempre la stessa. Devo anche dire che Romolo Bugaro, lo scrittore dell’omonimo romanzo da cui è nato Effetto Domino è uno dei miei autori preferiti per cui è stato sicuramente un punto di partenza quando ho iniziato a pensare a Le Città di Pianura.

Francesco Sossai e la potenza delle immagini

Ne Le città di Pianura si apprezza la capacità delle immagini di raccontare anche ciò che sulle prime non si vede. Come lo è il fatto di non mostrare mai i segni della cultura contadina pur attraversando spazi in cui questa dovrebbe manifestarsi. Lasciarla fuori campo è un altro modo per denunciare le conseguenze di questa trasformazione.

È vero ed è una cosa incredibile perché vivere in Veneto significa fare i conti con la sensazione di uscire dalla città senza riuscirci mai perché la campagna è stata inglobata da quella che gli esperti di fenomeni urbanistici chiamano la città diffusa in cui l’espansione incontrollata ha avuto effetti devastanti sull’ambiente. Il fatto di non averla voluta mostrare deriva da questa sensazione.

Anche perché c’è sempre un impedimento visivo che non ti permette di vederla.

Sì, è una specie di infinito al contrario.

Le Città di Pianura si presenta al pubblico in una forma diretta e lineare eppure è un film molto stratificato con più racconti al proprio interno. Uno di questi descrive il passaggio dallo stato di ebrezza dovuta agli effetti dell’alcool a quello di una ritrovata sobrietà. Sul piano filmico tutto questo si traduce nello scarto tra la prima parte in cui la soggettività delle immagini deforma il reale – mi riferisco per esempio agli edifici ripresi in maniera parziale – e la seconda, in cui il punto di vista sulla realtà diventa oggettivo – con le case filmate nella loro interezza – . La visita alla tomba di Brion rappresenta una sorta di spartiacque tra soggettività e oggettività del racconto. 

Questo succede perché nella prima parte la narrazione è molto legata al punto di vista di Carlobianchi e Doriano e dunque influenzato da una soggettività lisergica. In più essendo nati in quei luoghi per loro una parte rappresenta il tutto. Lo spigolo di una casa diventa l’intero Veneto perché entrambi sono in grado di cogliere bene il particolare. Con l’arrivo di Giulio questo punto di vista inizia a spostarsi perché il ragazzo ha una visione esterna più portata a cogliere il tutto.

Lo sguardo oggettivo

Le immagini colgono la cesura tra questi due sguardi nella corrispondenza esistente tra il particolare dei due anelli intrecciati disegnati involontariamente nel tovagliolo del ristorante e quelli che decorano la Tomba di Brion. 

Sì perché è in quel momento che le due visioni si uniscono: il particolare lisergico si fonde a una visione più teorica.

Nel momento in cui i nostri entrano dentro la tomba di Brion lo sguardo del film diventa per la prima volta oggettivo.

Perché lo sguardo su di loro è quello della tomba di Brion. È lei che guarda i protagonisti del film. Le scene all’interno del sito sono state girate con la tecnica del tatami shot utilizzata per la prima volta da Yasujirō Ozu e dunque con un punto di vista statico e ad altezza uomo come se fosse il giardino giapponese presente nel mausoleo a guardare i personaggi.

A essere strabiliante è che tu non teorizzi nulla perché ciò di cui stiamo parlando è parte integrante del racconto e non una riflessione esterna. In questo modo il film non ne esce appesantito mantenendo una leggerezza che prevale sulla drammaticità del tema.

Ti ringrazio perché non era facile riuscirci. Ho passato anni a capire come girare questo film. Per quanto mi riguarda guardavo al lavoro di registi come Robert Bresson e appunto Ozu dietro la cui linearità c’è sempre qualcosa da scoprire. Se guardi Pickpocket Viaggio a Tokyo ogni volta viene fuori qualcosa che non avevi visto.

Richiami e riferimenti per Francesco Sossai

Prima accennavi al lascito rappresentato da Fantozzi. Nella prima parte Le città di Pianura è attraversato da uno spirito ludico che fa dei personaggi gli interpreti delle tante storie raccontate nel film. È come se tu volessi in qualche maniera alleggerire il peso che incombe sull’esistenza dei tuoi antieroi. 

È così. Diciamo che ho riletto Le quattro lezioni del nuovo millennio di Italo Calvino, in particolare quella sulla leggerezza a cui mi sono in qualche modo ispirato per fare un film leggero ma non per questo stupido. Perché poi la grande commedia italiana professava proprio questa modalità ovvero quella di parlare di cose profonde e anche tragiche della società italiana in maniera lieve. La mia fonte è quella senza dimenticare ancora una volta Bresson e Ozu. Viaggio a Tokyo è un film di una leggerezza infinita nonostante l’importanza del tema. Far diventare Giulio l’alter ego di Genio ha voluto dire giocare con il mezzo cinematografico. Con il mio sceneggiatore abbiamo pensato che Giulio non l’aveva mai conosciuto per cui quando ne sente parlare abbiamo immaginato che avesse avuto voglia di essere lui l’eroe del racconto; anche per evadere almeno un momento dagli affanni della vita. Nel farlo abbiamo avuto fiducia sul fatto che lo spettatore avrebbe non tanto capito, ma piuttosto sentito qual era il senso di quelle scene.

Dalla Commedia Italiana Le città di pianura prende anche la dimensione picaresca dei personaggi, quella di vivere di espedienti che permette loro di sopravvivere in un mondo privo di morale. 

Proprio così. La Commedia Italiana mi piace come dispositivo e come strumento che non partecipa all’euforia collettiva verso il nuovo. In essa vedi altri lati come succede ne Il Sorpasso che mette in evidenza l’altro lato del miracolo economico. Così faceva I soliti Ignoti esplorando l’altra faccia del dopoguerra mentre I Vitelloni raccontava un aspetto diverso e non pittoresco della vita di provincia. Insomma della commedia italiana mi piace il posizionarsi in maniera antagonista nei confronti della narrazione corrente.

Per te qual è la narrazione corrente?

Quella dei luoghi della mia terra che sento molto problematica. È piazza San Marco con le Dolomiti sullo sfondo, Venezia e le piste di sci e tutto quel mondo lì. Lo è anche la narrazione industriale del paese, la piccola media impresa con lo slogan del piccolo, ma bello che si è rivelato un progetto fallimentare.

Rispetto alla frammentazione del paesaggio mi hanno colpito i primi piani sulle facce dei personaggi. Non solo per averceli restituiti nella loro interezza ma perché ci fanno sentire quanto gli vuoi bene. Si tratta di uno sguardo affettuoso che però non nasconde niente dei loro difetti. Si potrebbe dire che sono proprio le piccole imperfezioni del viso a farci sentire che esistono per davvero.

Quel modo di raccontarli era un po’ lo scopo di riprese come quelle, in cui c’è la stessa sensazione di quando hai bevuto e ti avvicini a chi lo ha fatto insieme a te. È bello perché si stabilisce una specie di intimità che però non impedisce di sentire la puzza d’alcool di chi ti sta accanto.

In un mondo di fantasmi la tua mdp li restituisce alla vita.

Rappresentandoli in carne e ossa.

Gli attori

La domanda conseguenziale è quella di chiederti degli attori. Se Filippo Scotti prosegue il suo cammino migliorando di film in film la vera sorpresa sono Pierpaolo Capoville e Sergio Romano artefici di una interpretazione da ricordare che a me ha ricordato quella di Mickey Rourke in Barfly

Quello che dici è bellissimo perché si tratta di una delle reference del film. Nel corso delle presentazioni tu sei il primo che me lo dice per cui complimenti.

Come sei arrivato a questi attori e in che modo avete lavorato?

Sergio Romano l’avevo visto ne La Grazia di un Dio di Alessandro Roja convinto che fosse di Genova talmente bravo era stato a parlare con l’accento di quella città. Lavorare con lui è stata un’esperienza incredibile. Sergio è un attore esperto che ha frequentato anche il teatro ma che si lascia andare al metodo del regista. Per questo ha accetto di vivere nel mio paese dove ha affinato le assonanze con il dialetto e le movenze della gente locale. Di Pierpaolo Capovilla ero un grande fan della sua band, Il Teatro degli Errori, per cui ho avuto l’ardire di chiedergli di fare l’attore anche se lui non aveva mai recitato. Essendo la sua prima volta si è lasciato andare al processo portandovi la sua anima poetica, quella che già trasmetteva con i suoi testi e con la sua musica considerando che tutti quelli che hanno partecipato al film, me compreso, si sono confrontati con il tema del fallimento.

Le prove non hanno riguardato il film ma i processi relazionali tra le persone. Abbiamo passato molto tempo insieme prima di girare. Questo ci ha permesso di trovare un vocabolario comune da utilizzare sul set.

Gli effetti dell’alcool fanno sì che in molti passaggi i personaggi sembrano lasciarsi andare all’estro del momento. In quel caso avete comunque seguito la sceneggiatura o hai lasciato che gli attori la modificassero a seconda dell’ispirazione?

Per me il testo scritto è un vero e proprio faro: non mi distolgo mai da quello. Allo stesso tempo la sceneggiatura è un organismo vivo quindi mi fido molto quando l’attore è talmente dentro il personaggio da proporre qualcosa di diverso. Comunque di solito i cambi di testo sono più che altro in sottrazione. Questo perché nella scrittura uno tende a coprire tutti i silenzi e a spiegare più di quanto dovrebbe anche all’interno dei dialoghi. Poi capita che gli attori hanno un tale livello di sintonia che una occhiata tra di loro spiega più di tante parole. Delle aggiunte invece mi fido poco perché non sono bravo a lavorare con le improvvisazioni. Il risultato è spesso incontrollato e poi c’è sempre da rimediare al montaggio.

Sappiamo come molti registi, penso per esempio ai Fratelli Dardenne, arrivino alla spontaneità attraverso l’assoluto controllo della messinscena.  

La parte fondamentale del mio lavoro è proprio questa: arrivare a una vitalità che sembra del tutto spontanea.

Parliamo del cinema che ti piace.

Mi piacciono tanto John Ford Howard Hawks. Sono i miei registi di assoluto riferimento. Poi ti dico Marco Ferreri e i suoi La Grande Abbuffata e Dillinger è morto. Amo tanto John Carpenter, Bresson e Ozu, la commedia italiana. Mi piace tanto il cinema giapponese, ultimamente soprattutto quelli di Kobayashi. Dimenticavo Michel Cimino che amo in maniera smodata mentre Bela Tarr è il mio mito essendo il regista che mi ha cambiato la vita.

Le città di pianura

  • Anno: 2025
  • Genere: Commedia
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Francesco Sossai