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Cult

‘Nashville’, il capolavoro di Robert Altman

Il capolavoro di Robert Altman del 1975 è una pellicola polimorfa che mescola vari generi e che racconta alla perfezione lo spirito dei tempi, dove la musica country si incontra con le grandi insoddisfazioni personali e politiche della società statunitense, attraverso un immenso cast corale che conta 24 personaggi principali

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Nashville

Ci sono dei film che non abbiamo paura di definire immortali. Capolavori senza tempo entrati di diritto nella storia del cinema. Opere che riescono a toccare le corde più profonde dell’animo umano, a sviscerare i tratti psicologici più complessi della mente e a cristallizzare lo spirito dei tempi. Poi ci sono film che rientrerebbero perfettamente in questi canoni, ma purtroppo, per semplice mancanza di notorietà, vengono spesso trascurati dal grande pubblico. Nashville, film del 1975 diretto da Robert Altman, è un esempio perfetto di questa casistica, soprattutto per un pubblico più giovane e non statunitense.

Nashville, centro nevralgico d’America

Il film di Altman mostra l’intreccio di molteplici racconti che si svolgono nella capitale mondiale della musica country, durante le giornate di un grande festival che richiama a sé grosse star della scena musicale country, musicisti in erba in cerca di fortuna e numerosi ammiratori del genere. In quei giorni, la capitale del Tennessee si fa teatro di delusioni sentimentali, inconcludenti ricerche di fama e di successo e di altre vicende caratterizzate dall’insoddisfazione. Ad accompagnare questi vari episodi, la campagna presidenziale di Hal Phillip Walker, leader di un terzo partito che porta avanti ideologie populiste e qualunquiste e vuole organizzare uno sfarzoso gala con le stelle del country a fini propagandistici.

Nashville

Una breve introduzione a Robert Altman

Esistono pochi periodi e/o movimenti della storia del cinema dei quali si può affermare che abbiano avuto la stessa carica esplosiva rivoluzionaria della New Hollywood. Le sperimentazioni del linguaggio cinematografico, eredità delle avanguardie europee, specialmente quelle francesi e italiane, si incrociano con la volontà di raccontare i mutamenti socio-culturali dell’America degli anni ’60 e ’70. Durante la Nuova Hollywood sono iniziate le carriere di numerosi grandi autori come Martin Scorsese, Steven Spielberg e Francis Ford Coppola, tra gli altri. Ma tra questi grandi maestri, si tralascia talvolta una delle figure che meglio è riuscita a incanalare le principali istanze estetiche e tematiche della New Hollywood. Stiamo parlando, ovviamente, di Robert Altman.

Altman, classe 1925 e originario del Kansas, è stato probabilmente l’autore statunitense che più di tutti ha segnato il distacco stilistico e ideologico della Nuova Hollywood rispetto alla cosiddetta Golden Age, e la cosa gli è stata riconosciuta più e più volte. Basti pensare al fatto che Altman è riuscito a vincere i premi principali dei tre maggiori festival cinematografici d’Europa, aggiudicandosi la Palma d’oro di Cannes nel 1970, l’Orso d’oro di Berlino nel 1976 e il Leone d’oro di Venezia nel 1993. Eppure, fuori dagli Stati Uniti, dove il suo ruolo da indiscusso maestro del cinema è ormai assodato, e tra le generazioni più giovani, che con il suo cinema hanno molta meno familiarità, capita che la sua figura sia meno conosciuta.

Ma perdersi il cinema di Robert Altman significa perdersi un cinema che riesce a cogliere perfettamente i costanti cambiamenti sociali, culturali e politici degli Stati Uniti d’America. Un cinema che, attraverso la potenza della satira, è riuscito a svelare le ipocrisie e le disillusioni dei cittadini statunitensi. Un cinema in cui si può già intravedere un atteggiamento postmoderno, che sarebbe diventato dominante nel corso degli anni successivi, in cui il genere classico viene decostruito, passando dal neo-noir de Il lungo addio al western revisionista di Buffalo Bill e gli indiani. Ma soprattutto un cinema in cui padroneggia la coralità, abbandonando la linea narrativa singola, chiara e ben leggibile del cinema classico in favore di una pluralità di punti di vista e di narrazioni, come si può ben vedere in M*A*S*H, I protagonisti, America oggi e in quello che forse è il suo più grande capolavoro, ovvero Nashville.

La musica e lo spettacolo come vero motore dell’America

Nashville è una creatura polimorfa in fatto di generi. É infatti una brillante commedia satirica, ma il suo umorismo si basa talvolta anche sulla fisicità slapstick. Ma è anche un delicato e profondo dramma umano, che in alcuni casi viaggia nei territori del film sentimentale. Inoltre, lo si può benissimo considerare un musical, ma decisamente sui generis. Ci sono numerosi momenti musicali importanti per la narrazione e per la caratterizzazione del contesto e dei personaggi. Ma non è propriamente un musical, perché si distacca dai classici canoni dei musical della Golden Age di Hollywood. Infine, si può considerare anche un atipico disaster movie. Un film catastrofico, in cui la catastrofe, però, non è tanto un disastroso evento naturale o una qualche apocalisse nucleare, ma forse qualcosa di più sottile e simbolico (ma di questo parleremo meglio dopo).

Concentriamoci prima sulla componente musical, e parliamo dunque della musica di Nashville. Il film è, ovviamente, dominato dalla musica country e folk ed è pieno di pezzi musicali deliziosi per gli appassionati del genere. Basti pensare che uno di questi brani, I’m Easy, eseguito in uno dei momenti più emotivamente carichi del film dal cantante Tom Frank, interpretato da Keith Carradine, ha vinto sia il Premio Oscar che il Golden Globe per la miglior canzone. Ma questo è forse l’unico esempio, all’interno del film, in cui una canzone esprime un’effettiva sincerità emotiva. La musica, tendenzialmente, ha ben altri scopi nella narrazione del film, che potremmo quasi definire propagandistici.

Questo si può notare già dalla prima canzone del film, ovvero 200 Years, intonata in uno studio di registrazione da Henry Gibson nei panni di Haven Hamilton, un pezzo celebrativo per il bicentenario degli Stati Uniti. Qui, come in altri brani, si svela che la musica country, dietro una patina di dolce nostalgia, serve alla glorificazione dei valori, delle tradizioni e dello stile di vita dell’America. L’industria musicale rappresentata in Nashville, però, è anche, e soprattutto, sineddoche dell’industria dello spettacolo. La musica è forza motrice di un sistema produttivo che genera sogni. Un sistema che plasma un mito, basato sulla fama e sul successo e alimentato dalla creazione di idoli (tra cui spicca la dolce Barbara Jean, interpretata da Ronee Blakley), che richiamano costantemente nuovi adepti, ammiratori e aspiranti artisti attirati dalla gloria e dalla celebrità, nutrendo l’uroboro dello spettacolo.

Le insoddisfazioni personali e politiche d’America

Tutto questo sistema ovviamente genera un fortissimo senso di disillusione e di insoddisfazione nella maggior parte dei ventiquattro personaggi principali del film. Conviene dunque aprire una piccola parentesi sulla coralità di Nashville, dato che il film rappresenta senza dubbio l’esempio migliore della coralità tanto cara a Robert Altman. Altman riesce a dirigere alla perfezione questa pletora di personaggi, seguendo la brillante e sagace sceneggiatura di Joan Tewkesbury, ma lasciando anche la libertà necessaria per sviluppare momenti di genuina improvvisazione. Emerge un maestoso ventaglio di uomini e donne ai quali è impossibile non affezionarsi, dai personaggi più complessi e tratteggiati alle semplici macchiette, che veramente tali non sono mai.

In questo arzigogolato intreccio, Altman dipinge dei ritratti di individui inappagati, frustrati e disillusi, creando personaggi molto simili a quelli dei racconti di Raymond Carver, grande narratore delle insoddisfazioni d’America. Non è un caso, infatti, che proprio Altman abbia adattato alcuni racconti dello scrittore nel suo America oggi. Pensiamo alla fragilità emotiva di Barbara Jean e alle sue crisi che non le permettono di esibirsi come una volta. O ancora, al trio musicale Bill, Mary e Tom, che diventa anche triangolo romantico, dato che Mary (Cristina Raines), sposata con Bill (Allan Nicholls), è in realtà innamorata di Tom. Tom, però, è un dongiovanni che cerca di annegare il suo dissapore esistenziale in sporadiche relazioni con varie donne, fra cui Opal (Geraldine Chaplin) e Linnea (Lily Tomlin). E come non parlare della povera Sueleen, interpretata da Gwen Welles, cameriera le cui aspirazioni musicali sono più grandi del suo talento, che si ritrova a doversi esibire in squallidi spogliarelli!

A queste insoddisfazioni personali, si aggiungono quelle politiche e sociali, incanalate nella figura del candidato presidenziale Hal Philip Walker. Walker, popolare leader del Replacement Party, un terzo partito di ideologia populista, non si fa mai vedere in faccia per tutto il film. É solo una voce che esce dalle radio o dagli altoparlanti e che si lancia in discorsi qualunquisti e demagogici, giocando con la frustrazione dei cittadini statunitensi nei confronti della classe politica. È qui che Nashville dimostra ancora una volta di cogliere alla perfezione lo zeitgeist degli anni ’70. Le elezioni presidenziali del 1976, quelle a cui Walker si è candidato, sono infatti le prime dopo lo scandalo Watergate che ha portato alle dimissioni di Richard Nixon nel 1972, creando un insostenibile clima di paranoia e di disillusione nei confronti della politica. Altman sembra quasi prevedere la deriva populista che di lì a poco si sarebbe espansa a macchia d’olio in tutto il mondo, e che continua a dilagare ancora oggi.

Un catastrofico e surreale finale

Il film, inoltre, racconta anche come l’industria dello spettacolo, o in questo particolare della musica, si pieghi ai voleri della politica, diventando strumento di propaganda. Per ottenere ancora di più il favore del popolo, Walker sta infatti organizzando un galà nella città di Nashville, cercando di convincere le più grandi stelle della musica country, fra cui spicca ovviamente Barbara Jean, a partecipare. Il grande concerto organizzato da Walker, tenutosi dinnanzi al maestoso Partenone della città, è anche il teatro del finale della pellicola. Finale che spiega come mai Nashville possa quasi essere considerato un disaster movie, dato che è qui che convergono tutti i crescenti impulsi caotici che si sviluppano nel film.

Il caos esplode in uno sconvolgente atto che turba tutti i presenti. Ma solo per poco, dato che questo si rivela il momento giusto per l’ambiziosa Winifred, interpretata da Barbara Harris, per intonare a gran voce, seguita dagli altri cantanti, dai musicisti e dal pubblico, la canzone It Don’t Worry Me. Qualunque cosa succeda, lo spettacolo deve andare avanti e non si può fermare. Proprio come accade in questo assurdo e quasi surreale finale, in cui la musica deve continuare a essere cantata e suonata.

Nashville

  • Anno: 1975
  • Durata: 160 minuti
  • Distribuzione: Paramount Pictures
  • Genere: commedia, drammatico, musicale
  • Nazionalita: Stati Uniti d'America
  • Regia: Robert Altman