Il film anticonvenzionale cult Léon di Luc Besson è uscito nelle sale cinematografiche nel 1994. Quello che da molti viene considerato l’ultimo vero capolavoro del regista francese narra la storia di un sicario professionista, Léon (Jean Reno) che, tra omicidi e fughe, fa un incontro che si rivelerà fondamentale nella sua vita: quello con la giovanissima Mathilda (Natalie Portman).
Chi è Léon
Léon (Jean Reno) è un sicario professionista che si aggira per le strade di New York, nel quartiere Little Italy, armato fino ai denti di pistole, fucili e granate, pronto a portare a termine i suoi incarichi. Un mestiere – se così si può definire – che svolge da quando ha diciannove anni, così come fece molti anni prima suo padre. Léon è sempre lo stesso, dentro e fuori: refrattario al cambiamento, lo evita, e se costretto, lo affronta con diffidenza. Indossa un paio di occhiali scuri, un berretto (perché con il suo lavoro non può permettersi raffreddori), e un lungo cappotto scuro.
Anche le abitudini, che divengono schemi comportamentali ossessivi, sembrano piuttosto avere il compito di fare percepire il protagonista al sicuro in un modo saturo di violenza e follia: Léon beve due litri di latte al giorno, si occupa della crescita e pulizia della sua pianta, che espone accuratamente ogni giorno al sole. E non dorme mai; resta invece seduto sulla poltrona tutta la notte, con un occhio chiuso e uno aperto.
Léon e Mathilda
La rigida routine di Léon resta immutata, almeno fino al giorno in cui un incontro inaspettato sconvolge la sua vita. Si tratta di Mathilda, una ragazzina di dodici anni che segna il meraviglioso esordio di Natalie Portman.
Mathilda vive nello stesso palazzo di Léon, sullo stesso pianerottolo, a pochi passi dal suo appartamento. La sua famiglia è profondamente disfunzionale: il padre è coinvolto in traffici illeciti e criminali, e l’ambiente domestico è segnato da violenza e trascuratezza.
Un giorno, mentre Mathilda è fuori casa per fare acquisti, accade l’irreparabile. Stansfield, un poliziotto corrotto interpretato da Gary Oldman, fa irruzione nell’appartamento. In un’esplosione di brutalità, massacra l’intera famiglia della ragazza, incluso il fratellino di soli quattro anni. Il motivo: un affare di droga finito male.

American actress Natalie Portman and French actor Jean Reno on the set of the film “Leon”, directed by Luc Besson. (Photo by Patrick CAMBOULIVE/Sygma via Getty Images)
È a partire da questo momento che le vite di Léon e Mathilda si intrecciano, dando origine a un legame complesso e ambiguo. Il loro rapporto, segnato da una vicinanza intensa ma profondamente asimmetrica, è tanto intimo quanto improbabile, e destinato a non trovare un lieto fine.
Eppure, all’interno di questa relazione fragile e fuori dagli schemi, i due riescono a vivere una forma d’amore autentica. Léon, per la prima volta, si confronta con la possibilità di cambiare e rivaluta il senso della propria esistenza. Mathilda, invece, trova in lui quella protezione che nell’infanzia le è sempre stata negata.
Il racconto si sviluppa attraverso colpi di scena, momenti di forte tensione e profondo dolore, fino a un epilogo inaspettato, che lascia spazio a una parziale, dolorosa forma di felicità.
Gli oggetti in Léon
Il latte come ponte simbolico
Gli oggetti in Léon assumono un ruolo preciso e fondamentale a livello narrativo. Uno dei primi a comparire, sin dalle inquadrature iniziali, è il bicchiere di latte che Léon beve abitualmente durante la giornata e che diventa strumento di contatto tra lui e Mathilda. Il latte è un simbolo carico di significati: richiama l’infanzia, l’innocenza, l’immagine di un bambino che si nutre. Anche se Mathilda non è ancora entrata in scena, infatti, la presenza di questo elemento sembra già evocarla, come un’anticipazione silenziosa del legame profondo che presto si instaurerà tra i due.
Nel corso del film, anche Mathilda inizia a bere latte, e l’oggetto del bicchiere accompagna entrambi i protagonisti lungo tutte le loro vicende. Le colazioni condivise segnano i momenti di apertura e distanza, contribuendo a definire i confini della loro relazione e a favorire una conoscenza reciproca.
Non a caso, ancora prima di varcare la soglia dell’appartamento di Léon, Mathilda ha già notato le sue abitudini: osserva la spesa monotona dell’uomo e in diverse occasioni gli chiede se abbia bisogno di acquistare del latte. Quando poi la ragazza diventa una presenza stabile tra quelle quattro mura, è lei a occuparsi della spesa quotidiana. Ed è sempre lei a preparare la colazione e a bere latte insieme a Léon al mattino durante le sue attese silenziose, prima di guardare i cartoni animati in televisione.
Il bicchiere di latte diventa anche un curioso punto di convergenza della tensione emotiva e, talvolta, sentimentale. Ogni volta che Mathilda si lascia sfuggire un apprezzamento goffo, ingenuamente carico di un’erotizzazione inconsapevole, verso Léon, costui sta bevendo il latte. Puntualmente, il sicario rischia di soffocare, travolto dall’imbarazzo. In quei momenti è evidente come, al di là della sua freddezza, Léon sia totalmente impreparato a gestire qualunque tipo di relazione umana autentica.
La mimesi tramite un paio di occhiali scuri
Léon è solito indossare un paio di occhiali scuri, elemento che completa il suo stile da criminale. Ogni volta che l’uomo è impegnato in un lavoro “di pulizia”, è solito indossare un paio di occhiali scuri. Una sorta di segno di riconoscimento, ancor prima che di camuffamento.
Anche in questo caso l’oggetto dell’occhiale si rivela essere un abile ponte di comunicazione tra Léon e Mathilda. Non a caso, quando la giovane decide di vendicare personalmente lo sterminio della sua famiglia, con un moto di sincero affetto solo per il suo fratellino di quattro anni, sceglie un outfit in tutto e per tutto simile a quello del suo compagno. Berretto, un paio di occhiali scuri e qualche arma da fuoco addosso. Sono i sentimenti di stima e vicinanza emotiva, per quanto in forma immatura, a muovere il tentativo di imitazione di Léon, da parte di Mathilda.
E anche un po’ la miseria umana nella quale vive, fa inevitabilmente la sua parte: orfana, alla sbando completo, priva di un rete sociale e affettiva, a Mathilda non resta altro che imitare un criminale al quale si è scoperta affezionata, ma che perderà tragicamente sul finale.
Se abbiamo detto che il latte richiama solitamente l’idea di infanzia ed innocenza, in questo caso questi significati si dissolvono. Mathilda non può davvero crescere, ma soltanto invecchiare, come lei stessa ammette, perché le è stato negato il proprio tempo interiore e la spensieratezza della sua età.
La pianta di aglaonema
Un’indiscussa protagonista di Léon è la aglaonema che il protagonista definisce la sua migliore amica (perché come lui non ha radici), che ama e cura in ogni inquadratura del film. Si preoccupa di lei, come se fosse un essere umano, pure nelle frenetiche scene finali, nelle quali mette in salvo Mathilda, non prima di essersi assicurato che la pianta sia con lei, nel pericolo di un’imminente sparatoria. Léon la espone al sole, ne bagna le foglie, le asciuga e le dà da bere: in poche parole, si occupa della sua crescita. In ogni fuga dei due protagonisti, dopo aver compiuto qualche crimine, la aglaonema è sempre presente, trasportata di appartamento in appartamento, sotto il braccio della giovane Mathilda.

Questo gesto di premura ossessiva rivela un lato nascosto della personalità di Léon: nonostante i suoi metodi spietati e moralmente discutibili, il sicario è capace di cura e dedizione verso gli altri, sebbene non per se stesso.
È lui, con gli strumenti concreti e affettivi che ha a disposizione, a scegliere di prendere con sé Mathilda, rifiutandosi di lasciarla al suo destino tragico, e lottando più volte contro la propria coscienza a proposito di questa decisione. È ancora Léon a decidere di prendersi cura di lei e a metterle da parte dei soldi, ben consapevole che la vita che le offre è tutt’altro che sana.
Mettere radici, nutrire, coltivare
La pianta diviene dunque un oggetto non solo di fondamentale importanza dal punto di vista narrativo, ma anche strettamente rivelatorio delle intenzioni, pensieri e sentimenti dei due protagonisti, che convergono tutti in lei. Gli oggetti nel film di Besson hanno lo scopo di concentrare la tensione – sentimentale, umana, sessuale che sia – e poi rilasciarla con l’aspetto di scelte, decisioni e dialoghi. La aglaonema è un elemento muto, ed in questo è la chiara rappresentazione del tipo di rapporto che si è instaurato tra Léon e Mathilda: il silenzio regna, l’affetto si manifesta ugualmente, perché in un microcosmo già traumatico e percorso dalla violenza effettivamente non c’è bisogno di molte parole.
Léon in definitiva prendendosi cura della sua amata pianta mostra a Mathilda il suo significato del concetto amore. Le mostra come e quanto sa prendersi cura degli altri, mentre in altre manifestazioni risulta impacciato e inadeguato, e soprattutto cosa è disposto a fare per loro. E Mathilda lo capisce, accettando lei stessa di prendersi cura della pianta, aggiungendo un suggerimento emotivo ed umano, che anche Léon, alla fine, riuscirà a fare suo: le piante, così come le persone, stanno bene quando possono mettere le radici. Un ultimo muto gesto d’amore, poiché dimostrazione di infinita libertà: di crescere, sbagliare e poter cambiare.