La morte di David Lynch il 16 gennaio di quest’anno ha lasciato un cratere nel panorama cinematografico, non solo perché era un maestro del cinema, ma perché era uno dei pochi registi che sembrava sognare da sveglio. Con la sua scomparsa, non solo perdiamo un visionario singolare, ma torniamo anche – feriti, riverenti – all’opera che ha plasmato il surrealismo moderno. Tra i suoi film, The Elephant Man (1980) si distingue, non solo per la sua relativa linearità, ma per la gravità emotiva che suscita.
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In questo dolore silenzioso e in scala di grigi si cela il capolavoro umanista di Lynch, che rifugge la narrazione rompicapo delle sue opere successive in favore di qualcosa di dolorosamente diretto. È, forse, il capitolo più coerente della sua filmografia, ma non per questo meno ricco intellettualmente. Come elogio funebre, mi sembra giusto iniziare da qui, dal luogo in cui per la prima volta si sono fusi la tenerezza e l’assurdità di Lynch.

Eleganza nella mostruosità
The Elephant Man racconta la storia di John Merrick (basato sul vero Joseph Merrick), un uomo grottescamente sfigurato nell’Inghilterra vittoriana che viene salvato dal mondo disumanizzante dei freak show dal gentile Dr. Frederick Treves. Quello che avrebbe potuto essere reso come un dramma compassionevole e manipolativo è invece un’inquietante meditazione sulla percezione dell'”Altro”.
Lynch inquadra Merrick non come un oggetto di orrore, ma come una figura dignitosa e intelligente, sepolta sotto la repulsione della società. L’interpretazione di John Hurt – quasi interamente dietro protesi – irradia un’umanità così fragile che noi, come Treves, ci vergogniamo del nostro voyeurismo.
La voce registica di Lynch è sommessa, ma inequivocabilmente presente. Il film si apre con un paesaggio onirico: la madre di Merrick, un elefante, nuvole, luce: è allo stesso tempo bello e opaco, il segno distintivo della logica onirica lynchiana.
Ma poi sprofondiamo nella fuliggine e nei mattoni della Londra industriale, resa in un bianco e nero dalla texture meravigliosa dal direttore della fotografia Freddie Francis. È un mondo che deforma l’anima molto più di quanto il corpo di Merrick potrebbe mai fare. Se Merrick è l’elefante, allora la città è la gabbia.

Tra Shelley e Kafka
Echi cinematografici e letterari permeano il film come vecchi fantasmi. Il parallelo più ovvio è Frankenstein: non il mostro di Mary Shelley in sé, ma il mito della conoscenza abusata e della tragica sensibilità. Come la Creatura, Merrick è intelligente, poetico e dolorosamente consapevole della propria anormalità. La differenza è che non cerca vendetta, solo compassione.
Ma sullo sfondo si può anche percepire la Metamorfosi di Kafka: un uomo, reso simile a un insetto dallo sguardo della società, che tuttavia si aggrappa a frammenti di umanità. Persino l’ambientazione evoca la sporcizia dickensiana e le brutali gerarchie morali dell’Inghilterra vittoriana. Eppure Lynch, a differenza di Dickens, evita il moralismo. Non c’è un cattivo evidente oltre l’ignoranza, né un salvatore evidente oltre il breve contatto umano.
Cinematograficamente, The Elephant Man dialoga anche con L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog, un altro film su un uomo tirato fuori da una gabbia e portato in un mondo “civilizzato” che non riesce a comprenderlo. E visivamente, ha un debito spirituale con La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, in particolare nei primi piani – quei volti tremanti e in lacrime in cui l’empatia si scontra con la repulsione.
Non si tratta di semplici riferimenti; sono parte di un dialogo in cui Lynch si inserisce, creando un film tanto letterario quanto poetico, senza mai sacrificare l’immediatezza emotiva.
L’etica dello sguardo
Uno degli aspetti più sorprendenti di The Elephant Man è l’interrogazione sullo spettacolo stesso. Lynch non ci chiede semplicemente di osservare Merrick, ma di confrontarci con il nostro desiderio di osservarlo. Il film trasforma l’atto dello sguardo in un dilemma morale.
Persino Treves, interpretato con un conflitto discreto da Anthony Hopkins, inizia a interrogarsi sulle proprie motivazioni: sta salvando Merrick o lo sta semplicemente mostrando in condizioni più accettabili? Questa domanda aleggia scomodamente in ogni inquadratura. Noi, il pubblico, non siamo assolti.
Quando Merrick crolla sotto il peso dell’attenzione e singhiozza: “Non sono un animale”, la battuta non è solo un grido di riconoscimento della propria identità, ma un rimprovero a un mondo che insiste nel definire l’identità in base alla superficie. Nelle mani di Lynch, questo momento non è melodramma, ma rivelazione.
La brillantezza del film risiede nel suo rifiuto di offrire facili soluzioni. Treves non è un cavaliere bianco, così come le masse in agguato non sono cattivi da cartone animato. Tutti sono intrappolati nella rete di una società che confonde la normalità con il valore e lo spettacolo con la comprensione.
Suono e silenzio
Come in tutta l’opera di Lynch, il suono non è solo sottofondo: è consistenza, presenza e metafora. Clacson e fischi industriali permeano la colonna sonora come una seconda pelle, rafforzando il contrasto del film tra brutalità meccanica e fragilità umana. Il silenzio, quando arriva, non è mai vuoto: è riverente, doloroso, quasi ecclesiastico.
Lynch usa anche la musica con parsimonia ma in modo devastante. L’Adagio per archi di Samuel Barber, suonato durante una delle sequenze più devastanti del film, è quasi insopportabile, eppure esattamente ciò di cui c’è bisogno. Ci trascina fuori dalla narrazione e ci trasporta in qualcosa di sacro, uno spazio comune di lutto ed empatia.

Un sogno per chi muore
La scena finale di The Elephant Man è puramente Lynch: Merrick, dopo aver vissuto fugaci momenti di amore e accettazione, si sdraia per dormire, sapendo che farlo lo ucciderà. Mentre la sua testa affonda dolcemente sul cuscino, il film si trasforma in una visione cosmica: stelle, sussurri, la voce di sua madre. È la morte non come annientamento, ma come trascendenza. Merrick muore non perché è distrutto, ma perché è finalmente stato reso intero.
Quest’immagine rimane impressa a lungo dopo la fine dei titoli di coda. È un promemoria che Lynch, nonostante tutte le sue provocazioni surrealiste e la logica da incubo, è soprattutto un regista di grazia. The Elephant Man non sconvolge né confonde come fanno Eraserhead o Mulholland Drive, ma ci ferisce con un registro diverso: silenziosamente, in modo devastante e senza crudeltà.
L’eredità della misericordia
Rivedendo The Elephant Man dopo la scomparsa di Lynch, si rimane colpiti da quanto il film predicesse la sua opera più ampia. La tensione tra identità e percezione, l’abuso di potere, il terrore di essere visti: questi sono temi lynchiani che nascono non dai sogni, ma dalla materia prima della sofferenza umana.
Eppure, più di ogni altro film di Lynch, The Elephant Man osa credere nella gentilezza. Non finge che la compassione redima un mondo crudele, ma insiste sul fatto che la compassione conta, che è forse l’unica resistenza significativa che possiamo offrire in un sistema costruito sullo spettacolo e sul silenzio.
Se questo è stato il film più “normale” di Lynch, è stato anche il più radicale. Ha osato essere sincero. Ha osato chiedersi non solo cosa significhi essere umani, ma se siamo abbastanza coraggiosi da trattarci a vicenda come tali.
In questa domanda, The Elephant Man diventa non solo un film, ma uno specchio. Come disse lo stesso Lynch: Fix your hearts or die.
The Elephant Man il ritorno di un capolavoro nelle sale italiane