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Disney: cinque personaggi diseducativi nel cinema d’animazione

Educare alla bontà o educare alla sottomissione? Un viaggio tra archetipi, miti e modelli

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Cosa succede quando a educare sono personaggi che, pur sembrando buoni, insegnano a tacere? Quando il bene coincide con l’annullamento? Quando i protagonisti non affrontano il male, bensì decidono di evitarlo? Da sempre l’animazione costruisce dei modelli specifici, spesso in correlazione con gli archetipi junghiani e di conseguenza con quelli vogleriani, che servono per creare il viaggio dell’eroe. Ma a quale prezzo? La Disney, soprattutto, ha creato un pantheon di eroine ed eroi che, dietro l’incanto visivo, spesso trasmettono un’idea di bontà accomodante, passiva, remissiva. E chi guarda, in questo caso soprattutto i più piccoli, cosa interiorizza davvero? Cosa rimane indelebile nella loro mente?

1. Ariel (La Sirenetta, Ron Clements e John Musker, 1989): l’annullamento del sé per amore

Ariel, un personaggio Disney, spesso celebrata per la sua curiosità e determinazione, ripropone un modello antico: rinunciare alla propria voce, alla famiglia e al mondo d’origine per un amore idealizzato. Il sacrificio che compie è totale e non ha nulla di eroico in senso attivo. L’eroe vogleriano  compie un viaggio per diventare se stesso. Ariel, invece, si annulla. Non affronta il conflitto: si limita a desiderare. Il suo lieto fine arriva per intervento esterno, non attraverso una crescita interna.

Come ricorda Ursula, la sua antagonista:

“La vita è piena di scelte difficili, non te l’hanno detto?”

Ariel sceglie di privarsi della voce, cioè del pensiero, del corpo, della possibilità di raccontarsi. Una scelta che è sempre rivolta all’altro, mai a se stessa. Il film d’animazione di Ron Clements e John Musker (1989), propone tuttavia un lieto fine rispetto alla vera storia di Hans Christian Andersen, dove il gesto della protagonista è estremizzato: invece di uccidere il Principe, Ariel sceglie il suicidio, determinando la sua totale cancellazione.

2. Biancaneve: (Biancaneve e i sette nani, David Hand, 1937): la bontà passiva come modello unico

Biancaneve incarna l’archetipo della fanciulla salvata. È buona, casta, remissiva. Il suo unico potere è quello di essere amata. Vittima dell’odio e della gelosia, non reagisce mai con forza. Il messaggio implicito è che la vera bontà è quella che tace, che aspetta, che non si arrabbia mai. La rabbia non è contemplata, eppure, come ci ricordano lo psicanalista James Hillman e anche la stessa narrazione evangelica, esiste una collera giusta, trasformativa. Biancaneve è l’emblema di una gentilezza silenziosa che diventa compiacente.

La narrazione cinematografica di David Hand la premia per l’immobilità, per l’accettazione del dolore come destino. Ma una protagonista senza conflitto non può davvero accompagnare chi cresce.

3. Peter Pan in Disney (Le avventure di Peter Pan, Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske, 1953): l’infanzia che rifiuta la responsabilità

La versione Disney di Peter Pan ha edulcorato profondamente il personaggio originale di J.M. Barrie. Il Peter della narrativa teatrale e letteraria è crudele, manipolatore, spietato con chi tradisce il patto dell’infanzia eterna. Elimina i Bimbi Sperduti che crescono, uccide i pirati e costringe Wendy a restare, negando alla ragazza il ritorno alla crescita. Il film Disney di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske, trasforma tutto in avventura e gioco, rimuovendo il cuore oscuro del personaggio. Il risultato è una figura ambigua, che rifiuta il tempo, la crescita e il legame.

“Dove andremo non dovrai mai, mai preoccuparti dei problemi dei grandi.”

dice Peter. Una frase nella quale si legge tutto il tratto evitante del personaggio, che ha dato vita alla sindrome di Peter Pan, ad oggi non ancora considerata una diagnosi clinica ufficiale.

4. Quasimodo (Il gobbo di Notre Dame, Gary Trousdale e Kirk Wise, 1996): il martire dell’auto-annullamento

Anche Quasimodo, pur nella sua tragicità, viene dipinto come il simbolo di una bontà remissiva. Ama Esmeralda, ma non la conquista. Si sacrifica, perdona, tace. Il suo premio è la redenzione, non la felicità. Come Ariel, Quasimodo è colui che non disturba, che non reclama. La sua deformità fisica diventa metafora di un’anima talmente buona da non osare chiedere nulla. Ma un eroe non può essere solo puro: deve essere intero. Deve contenere ombra e luce, come ci insegna Jung.

Esmeralda stessa, emblema dell’altro, del diverso, dice:

“Ma cos’hanno contro le persone diverse, si può sapere?”

Una domanda che resta senza risposta, in un mondo che accetta la differenza solo se silenziosa.

 

5. Cenerentola (Cenerentola, Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske, 1950): la sopportazione come unica virtù

Cenerentola è forse l’emblema definitivo della bontà premiata dopo l’umiliazione. Sebbene troviamo l’adattamento dal punto di vista di una delle sorellastre  The Ugly Stepsister, dove viene ribaltato il punto di vista. Qui vive nella servitù, maltrattata dalla matrigna e dalle sorellastre, ma non si ribella mai. Canta, sogna, sopporta. Non si arrabbia, non denuncia, non si difende. Il messaggio che passa è chiaro: se sei abbastanza buona, arriverà la magia a salvarti. Ma la bontà qui è sinonimo di abnegazione, di silenzio, di accettazione dell’ingiustizia come condizione naturale. Anche l’arrivo della Fata Madrina è una ricompensa dall’alto, non il frutto di una conquista.

Un modello che, pur nella sua iconografia classica, rischia di dire alle bambine che la pazienza è più importante della dignità. Come se il dolore silenzioso fosse il requisito per ottenere amore. Come se fosse l’unica chiave di salvezza.

Perché servono eroi complessi

Le fiabe originali, così come la mitologia classica, non hanno mai temuto il conflitto: l’eroe era spesso lacerato, ambiguo, passionale. Come scrive Bruno Bettelheim, il bambino ha bisogno di fiabe che non lo proteggano dalla complessità ma che lo aiutino ad attraversarla. La Disney ha scelto un modello narrativo che privilegia l’edulcorazione, la risoluzione rassicurante, la bontà senza colpa. Ma il rischio è quello di lasciare i bambini senza strumenti per affrontare il dolore, il rifiuto e la rabbia.

Forse è tempo di tornare agli eroi meno perfetti e più veri. Figure Disney più recenti, come Mirabel in Encanto, mostrano che il valore può esistere anche senza doni magici e che l’identità va riconosciuta, non solo premiata. I più piccoli non dovrebbero dunque imitare la sofferenza, bensì imparare a riconoscerla. Per scoprire che anche la rabbia può essere giusta, che anche il buono ha diritto a dire no, che non c’è crescita senza conflitto, e che, a volte, per essere davvero buoni, bisogna prima essere completi.

Tutti i film sono disponibili su Disney+.