Da poco uscito nelle sale con Cloud (QUI la nostra recensione del film) e mostrato in anteprima all’81 Mostra del Cinema di Venezia, Kurosawa Kiyoshi è un regista giapponese eclettico e capace di districarsi tra tematiche e generi diversi. In questa retrospettiva, analizziamo la carriera e la visione registica di uno dei maestri del J-Horror.
Kurosawa e il seme del perturbante
Nato a Kōbe nel 1955, Kurosawa Kiyoshi è oggi considerato uno dei maestri più enigmatici e sorprendentemente coerenti del cinema giapponese contemporaneo, apprezzato anche lontano dalla terra del Sol Levante. Eppure, il suo percorso artistico ha preso avvio ben lontano dai riflettori occidentali.
Dopo essersi laureato all’università di Rikkyo sotto la guida di Shigehiko Hasumi (noto critico letterario e cinematografico), comincia la sua carriera nel mondo dei pinku eiga, film giapponesi degli anni ‘70 e ‘80 appartenenti a un macro-genere che include qualsiasi film contenente nudità (anche se il termine è spesso utilizzato per indicare film a sfondo erotico-softcore). In questo contesto realizza titoli come Kandagawa Wars (1983) e The Excitement of Doremifa Girl (1985). Ed è sempre nel mondo del cinema a basso costo (V-cinema, cioè di quel cinema distribuito in home video) che Kurosawa sperimenta i generi e matura il suo linguaggio.
Fin dai primi lavori, s’intravede un interesse per il perturbante e una certa affinità per un’inquietudine capace di serpeggiare nel quotidiano. Ma è solo a metà degli anni ’90 che il suo stile si definisce pienamente. Film come Serpent’s Path e The Revenge (entrambi del 1997) combinano thriller e introspezione psicologica in un mix perfetto che lo porterà sulla rampa di lancio della sua carriera. È infatti con Cure (1997) che Kurosawa raggiunge per la prima volta una vera consacrazione critica, diventando un autore conosciuto a livello internazionale. La forza di questo nuovo regista nipponico non risiedeva nella sua capacità di spaventare o di dissanguare i propri personaggi, ma nel legare indissolubilmente il terrore psicologico a quello esistenziale, sfruttando il genere come una riflessione filosofica e perturbante delle paure più profonde dell’essere umano.
“Forse oggi il vero male non è più un’entità occulta o una nuova tecnologia, ma noi stessi.”
La fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 segnano un periodo di eccezionale fertilità creativa. Dopo il successo di Cure, Kurosawa firma Charisma (1999), Kairo (2001) e Bright Future (2003), presentato a Cannes nella sezione ufficiale. Quelli di Kurosawa sono film che non rientrano mai comodamente in un genere, ma che si ritrovano sempre a oscillare, incastrati su di un binario che viaggia tra il fantastico, il noir, l’esistenzialismo e il melodramma. Ciò rivela un pensiero cinematografico (e umano) inquieto, nutrito di riflessioni sul tempo, l’identità, la morte e la modernità.
Negli anni successivi, Kurosawa continua a ibridare i linguaggi: dal dramma familiare di Tokyo Sonata (2008), vincitore del premio della giuria a Cannes nella sezione Un Certain Regard, all’inquietudine metafisica di Journey to the Shore (2015), fino al melò storico Wife of a Spy (2020), vincitore del Leone d’Argento alla regia a Venezia. Negli ultimi film (Chime, un cortometraggio, e Cloud, entrambi del 2024), si avverte un ricongiungimento con Cure: l’interesse per il soprannaturale cede il passo alla diagnosi sociale, in cui l’orrore è sempre più spesso generato da strutture collettive e dinamiche sistemiche.
Kurosawa e il terrore del quotidiano
Nei film di Kurosawa l’orrore prende forma tra le pareti spoglie di un appartamento, nei cubicoli impersonali di un ufficio, nei vialetti anonimi della periferia di città. Persino gli ambienti più “semplici” di Cloud appaiono ricchi di ombre e di pericolo in agguato. Lo spazio quotidiano è, per Kurosawa, un habitat deformato, dove l’ordinario è solo una superficie che cela inquietudini profonde. Ed ecco che, ribaltando un intero immaginario horror che aveva fino ad allora relegato il terrore a cimiteri, case stregate e oscurità arcane, il male si insidia nel lavoro che ti sei scelto, nell’amico che frequenti da anni, nel diner dove ti concedi una colazione.
“La paura la trovi proprio nel quotidiano”
Questo approccio trova una delle sue espressioni più radicali in Cure, dove un’indagine poliziesca si trasforma lentamente in un viaggio dentro il tessuto sociale. Il detective Takabe si muove in una Tokyo spenta e impersonale, insanguinata da crimini inspiegabili che sembrano nascere spontaneamente da “persone normali”. L’apparente “mostro” (il misterioso Mamiya) è un uomo giovanissimo, dall’aspetto quasi catatonico, incapace persino di ricordare quale sia il suo nome. Eppure, il suo vuoto psichico agisce come una forza centrifuga capace di togliere le catene all’identità delle persone che incontra, aprendo brecce da cui fuoriescono pulsioni animali e represse. Cure è un film in cui tutti sono quasi-mostri e l’unica cosa che ci separa da esserlo totalmente è la nostra morale. Il quotidiano non è un rifugio, ma un territorio già infetto da cui è impossibile difendersi.
La dinamica è simile in Chime, cortometraggio recente ma perfettamente allineato a questa poetica. Anche qui il male non viene mai fatto esplodere in squartamenti o litri di sangue, ma si insinua lentamente fino a portare al collasso dei personaggi. Così come in Cure, anche Chime risulta permeato da una follia sopita, una malattia che ci affligge tutti anche se non ce ne rendiamo conto.
Il perturbante è dunque uno dei cardini della poetica di Kurosawa: ciò che è familiare, ma che improvvisamente diventa sbagliato. Pensiamo a Pulse, ad esempio. Qui i fantasmi non infestano castelli gotici ma abitano la rete, si installano nei nostri computer, ci guardano attraverso le webcam. È l’infrastruttura stessa della vita moderna (il lavoro, la comunicazione, la casa, l’elettrodomestico) a diventare improvvisamente la fonte del male. Persino quando Kurosawa mette in scena dinamiche più esplicitamente narrative, come in Cloud, l’orrore germoglia sempre dal “semplice”. Il viaggio verso la rovina di Ryosuke Yoshii non è segnato da un trauma o da una colpa, ma da un’inquietudine, una noia esistenziale che lo attanaglia, oltre che da un’ossessione per i successi altrui.
Ma attenzione, nei film di Kurosawa la normalità non viene distrutta: è già, in partenza, danneggiata. E da Cure ai suoi film più recenti, la sua filmografia sembra suggerirci che i tempi moderni non hanno bisogno di mostri: basta guardarsi attorno.
Società spettrale: Kurosawa e la poetica della sparizione
Una delle caratteristiche più affascinanti del cinema di Kurosawa è il modo in cui tratta l’elemento dell’invisibile. Non semplicemente fantasmi nel senso archetipico del termine, bensì sparizioni che si imprimono nella pellicola più della carne. Se Cure è abitato dall’ipnosi, da un male intangibile che si diffonde per mezzi eterei, da un’inquietudine che nasce da dentro, film come Pulse o Séance (2000) portano il discorso sul terreno della comunicazione tra vivi e morti. Kurosawa è sempre stato affascinato dalla morte come concetto di sparizione dalla vita. Il suo uso dei fantasmi nei film non è mai un effetto speciale, non costruisce jumpscare, ma è un effetto collaterale della vita stessa.
In Pulse, la rete internet si fa medium per la trasmissione dei morti, un canale vuoto e impersonale che invece di collegare, isola. Le persone spariscono, lasciando dietro di loro solo ombre stampate sui muri (immagine che il pubblico giapponese collega inevitabilmente alle sagome delle persone bruciate dall’esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, un terrore atavico e genetico, ormai impresso per sempre nella cultura del popolo nipponico). Lo spettro, per Kurosawa, è ciò che resta di noi nel momento in cui smettiamo di essere soggetti del mondo. Non è un’entità altra, ma l’ombra di chi eravamo, è ciò che ci lasciamo dietro, impresso per sempre nei muri delle nostre case.
Il soprannaturale in Kurosawa non turba l’ordine del mondo, bensì lo rivela. Come ha scritto il critico cinematografico Chris Fujiwara, il regista giapponese
“viaggia lungo il confine tra il quotidiano e il soprannaturale”
esplorando quel margine sottile in cui il mistero si annida proprio perché tutto appare normale. È una zona grigia dove la paura non è generata da ciò che si mostra, ma da ciò che resta fuori campo, da ciò che scompare. In questo spazio sospeso, è l’assenza a fare più rumore della presenza. Come nel caso del personaggio di Mamiya in Cure, anche i fantasmi di Pulse o le visioni di Séance non sono agenti esterni che irrompono dal regno dei morti, ma specchi deformati di ciò che è già dentro di noi. È ciò che resta della nostra solitudine, della perdita di legami, dell’incapacità di elaborare il lutto in una società sempre più vuota. E se Pulse annuncia un’apocalisse in cui l’umanità si estingue nell’invisibilità, è perché l’epoca stessa in cui viviamo è già spettrale.
Siamo già disincarnati, è che non ce ne siamo ancora accorti.
La trasmissione del male
Nel cinema di Kurosawa il male è un fenomeno virale, una forza che si propaga come un’infezione. Non è un’entità con un volto preciso, né un trauma da curare: è sempre un virus sociale o emotivo. In questo senso, la sua idea di male si configura come un contagio: invisibile e allo stesso tempo perennemente presente. Il vero orrore nei suoi film non è l’eccezione, ma l’inquietante possibilità che il male sia la norma. Cure è la matrice di questa visione.
I delitti che vi si susseguono sono apparentemente senza logica, accomunati solo dalla modalità rituale e dall’interazione fugace con il misterioso Mamiya. Il protagonista, l’ispettore Takabe, rappresenta l’illusione del controllo: desidera controllare il caso, scoprire come controllare la mente umana, tenere le redini della propria famiglia (non a caso la moglie è affetta da disturbi psichici). Ma il male non si può contenere, anzi al contrario: più si tenta di razionalizzarlo, più si fa insidioso fino a portare al celebre finale del film, che entra di diritto nella storia del cinema horror.
In Chime il contagio si manifesta attraverso un suono che solo chi è infetto riesce a percepire. La cornice è quella di un istituto per cuochi, un contesto ordinario e asettico, ma la violenza esplode comunque. Qui il controllo ha un’altra forma: l’insegnante. Questo cerca inizialmente di proteggere i suoi allievi, mantenendo ordine e distacco. Tuttavia, proprio come il detective Takabe, anche lui è destinato a cadere vittima del virus. In Cloud, Yoshii è un personaggio mosso dal desiderio di controllare la propria condizione economica, che finisce per amplificare esponenzialmente la sua solitudine. E quando i clienti che truffa si organizzano e iniziano a braccarlo, l’illusione si frantuma. Internet, che sembrava uno strumento di dominio, si rivela invece la sua fine.
Controllo e ossessione
Si delinea una retorica evidente: l’ossessione per il controllo (della propria identità, del proprio spazio quotidiano, degli altri) è ciò che può generare la rottura. Non è solo il male a infettare, ma anche la paura del caos, dell’indeterminatezza, della perdita. Il cinema di Kurosawa racconta questa eterna tensione: siamo immersi in un mondo apparentemente perfetto e ordinato, ma è proprio quel desiderio ossessivo per l’ordine a generare il mostruoso. Ecco perché le sue storie non hanno mai una soluzione. I detective non chiudono i casi, gli spiriti non vengono esorcizzati, le crisi non si risolvono. Non c’è l’espulsione del male a cui gli esorcisti da pellicola ci hanno abituato: c’è solo la sua progressiva riesumazione.
Alla fine il male, nel cinema di Kurosawa, non si riduce mai a una singola forma. Cambia, si evolve, passa da persona a persona, si insinua nel tessuto del quotidiano. Il regista giapponese lo lascia pulsare, lo lascia scorrere nelle vene così come scorre nella rete internet.
Il male muore e si reincarna in tante altre facce, tutte però accomunate da una sola, semplice, perturbante verità.
Tutti siamo capaci di farlo.