Mentre Eddington, il nuovo attesissimo film di Ari Aster, debutta in concorso al Festival di Cannes 2025, è chiaro che il regista americano abbia ormai superato i confini del cinema horror per imporsi come una delle voci più riconoscibili e audaci del panorama contemporaneo. Dal culto di Hereditary, alla luce ipnotica di Midsommar, fino al viaggio psicanalitico di Beau Is Afraid, il cinema di Aster non ha mai smesso di interrogare lo spettatore su ciò che si cela dietro la normalità, scavando nel trauma, nella colpa e nell’angoscia quotidiana.
Esploriamo il percorso del regista dagli esordi fino all’ultima opera presentata a Cannes.
Biografia
Nato a New York nel 1986 e cresciuto in un ambiente culturale ebraico, Aster si forma alla AFI Conservatory di Los Angeles, dove perfeziona una grammatica visiva già riconoscibile. Ma facciamo un passo indietro.
Le sue radici familiari affondano in un terreno fertile per la creatività. Afferma il regista:
“I miei genitori sono incredibilmente di supporto. Sono entrambi artisti. Mia madre (Bobbi Lurie) è una poetessa brillante ed è anche una brillante artista visiva. E mio padre è un batterista jazz, un batterista R&B. Quindi sono cresciuto in una famiglia di artisti e loro sono sempre stati incredibilmente di supporto. Penso che uno dei motivi per cui riesco a lavorare con materiale così oscuro sia che non mi hanno mai fatto mettere in discussione quello che faccio. Mi hanno sempre incoraggiato e supportato. Sono semplicemente incredibilmente fortunato.”
Un capitolo significativo della sua infanzia si svolge oltreoceano, a Chester, nell’Inghilterra nord-occidentale. Qui, il padre decide di aprire un jazz club. All’età di dieci anni, la famiglia fa ritorno negli Stati Uniti, stabilendosi ad Albuquerque, nel Nuovo Messico. Per un po’ di tempo nel 2004 scrive per Weekly Alibi. Nel Nuovo Messico frequenta l’Università di Belle Arti e Design di Santa Fe, dove si laurea in cinema nel 2008. Il passo decisivo arriva con l’ammissione alla prestigiosa AFI (American Film Institute) Conservatory di Los Angeles, a cui segue una laurea in regia.
I primi cortometraggi
Prima di sconvolgere il pubblico con The Strange Thing About the Johnsons, Ari Aster realizza una serie di cortometraggi durante il suo periodo all’AFI Conservatory.
Il primo è Herman’s Cure-All Tonic (2007), una commedia noir surreale e grottesca. Il cortometraggio, della durata di circa 12 minuti, è stato scritto da Anayat Fakhraie e diretto da Aster. La trama ruota attorno a Harold, un giovane farmacista che lavora sotto il controllo del padre malato e abusivo Herman, inventore di un elisir miracoloso. Harold si trova a gestire le pressanti richieste dei clienti e le critiche severe, mentre subisce le angherie del padre. La situazione evolve quando scopre un modo inquietante per produrre il tonico.
Nel 2011 dirige e interpreta il corto Tino’s Dick Fart, noto anche come TDF Really Works. Si presenta come un finto spot pubblicitario per un dispositivo chiamato “Tino’s Dick Fart”, progettato per far emettere flatulenze del pene. Il film, della durata di 2 minuti, è una parodia degli infomercial, caratterizzata da un umorismo volutamente volgare e surreale.
Tuttavia, è con Beau (2011) che Ari Aster inizia a esplorare con maggiore chiarezza gli elementi che accompagnano ad oggi il suo cinema: l’ansia, la famiglia, la solitudine paranoica. Questo corto, che sarà poi la base per Beau Is Afraid, è un vero incubo ad occhi aperti. Beau è un uomo ansioso e solitario che vive in un appartamento fatiscente. Dopo aver prenotato un volo per andare a trovare sua madre, una serie di contrattempi sempre più surreali e inquietanti iniziano a impedirgli di uscire di casa. Ogni ostacolo sembra una manifestazione concreta delle sue paure più profonde. Intrappolato in un crescendo di situazioni assurde, Beau si ritrova incapace di agire.

“The Strange Things About the Johnsons“
The Strange Thing About the Johnsons (2011) è il cortometraggio che ha definitivamente lanciato Ari Aster nell’olimpo dei cineasti da tener d’occhio. Con una durata di appena 29 minuti, questo corto rappresenta la tesi di laurea del regista all’AFI Conservatory. La trama ruota attorno la vita di una famiglia apparentemente normale, al cui interno tuttavia si cela un segreto. Lungi dall’essere una semplice provocazione, l’opera esplora con audacia temi di controllo, vulnerabilità, ruoli familiari distorti e la potenziale oscurità che può celarsi sotto la superficie della normalità borghese.
L’evoluzione tematica nei corti di Ari Aster

Bonnie Bedelia e Liam Aiken in “Munchausen“
Nel 2013 esce Munchausen, melodramma muto accompagnato solo da una colonna sonora orchestrale. Della durata di 17 minuti, il cortometraggio racconta l’amore tossico di una madre (Bonnie Bedelia) per il figlio adolescente (Liam Aiken) che si appresta ad andare al college. Il titolo si riferisce alla sindrome di Munchausen per procura, un disturbo mentale in cui un genitore induce o finge malattie nel proprio figlio per attirare attenzione o mantenerne il controllo. La dissonanza tra la perfezione visiva e la crudeltà delle azioni raccontate crea un effetto disturbante e profondamente efficace. È, in fondo, una parabola sulla maternità come prigione e sulla famiglia come spazio di controllo emotivo, un tema che diventerà centrale in Hereditary pochi anni dopo.

Richard Riehle in “The Turtle’s Head“
Lontano, almeno in superficie, dal tono tragico e raffinato di Munchausen o The Strange Thing About the Johnsons è The Turtle’s Head (2014). Il cortometraggio segue un investigatore privato, di nome Turtle, che indaga su un caso in una Los Angeles fumosa e corrotta. Tuttavia, mentre porta avanti l’indagine, il suo corpo comincia a subire una misteriosa trasformazione: una lenta, progressiva perdita di parti del proprio corpo. The Turtle’s Head è un cortometraggio surreale, sessualmente esplicito e visivamente deformante. Sotto la superficie bizzarra permane il tema dell’identità che si sgretola, tanto fisicamente quanto psicologicamente.
Nello stesso anno Ari Aster realizza Basically. È una narrazione più sperimentale, in quanto è costruito interamente come un monologo ironico di una giovane attrice, Natalie, aspirante influencer. Si trova a fare i conti con le proprie insicurezze e aspirazioni e le difficoltà nell’affermarsi nel mondo dello spettacolo. La riflessione sul vuoto esistenziale è sottile ma presente.

Ari Aster si cimenta nel 2016 con C’est la vie, il suo ultimo cortometraggio prima del debutto nel lungometraggio con Hereditary. Questo film breve ruota attorno alla figura di uomo che vaga per Los Angeles in preda a un flusso di pensieri caotici e esistenziali. È interpretato da Bradley Fisher, attore già visto in altri progetti legati ad Aster. Il film è strutturato come un monologo interiore che accompagna il protagonista mentre si muove per la città. Riflette su temi quali la morte, l’ansia, il fallimento personale, il sesso, l’abbandono e il senso della vita stessa.
‘Hereditary’: Ari Aster debutta nel lungometraggio

Alex Wolff e Toni Collette in “Hereditary“
Il debutto di Ari Aster alla regia di un lungometraggio avviene con Hereditary, nel 2018. Più che un semplice horror, il film è un ritratto devastante del dolore, della perdita e della fragilità dei legami familiari. Grazie alla regia controllata, atmosfere opprimenti e con la straordinaria performance di Toni Collette, Hereditary si colloca in quella corrente spesso definita “Elevated Horror”, dove l’elemento spaventoso è indissolubilmente legato a un senso di tragedia intima e ineluttabile.
La storia segue la famiglia Graham nei giorni successivi alla morte della nonna materna. Mentre ciascun membro elabora il lutto in modo diverso, iniziano ad accadere eventi inspiegabili che sembrano collegarsi al passato oscuro della famiglia. L’equilibrio psicologico di ognuno si incrina progressivamente, mentre una presenza invisibile ma palpabile sembra insinuarsi tra le mura di casa.

L’ambientazione familiare, il cuore dell’horror di Ari Aster, qui si trasforma in un teatro claustrofobico del dolore. La casa, che normalmente è un rifugio, si fa gabbia, palcoscenico del lutto e della frattura. Nel lungometraggio, la miniatura non è solo un elemento estetico o una peculiarità della protagonista Annie. È una chiave simbolica dell’intera narrazione. Aviva Briefel, esperta di cinema horror, nell’articolo accademico “The terror of Very Small Worlds” scrive che nel film
“le emozioni esplodono come in un melodramma, ma la scala visiva le riduce, le intrappola, le miniaturizza”.
Il tentativo di Annie di mettere ordine nel caos, attraverso l’arte, attraverso la ricostruzione maniacale della realtà, fallisce miseramente. I suoi diorami, come i Nutshell Studies di Frances Glessner Lee a cui Briefel paragona il film, diventano scene del crimine congelate, rituali estetici che negano la verità del lutto. Secondo la studiosa e critica letteraria Lauren Berlant, questo tipo di controllo illusorio è ciò che definisce il “cruel optimism”: l’attaccamento a qualcosa che promette salvezza ma produce solo danno. In Hereditary, l’arte non salva: ripete il trauma, lo sublima, ma non lo dissolve.

Toni Collette come Annie Leigh-Graham in “Hereditary“
Alla domanda di descrivere il film, Ari Aster afferma:
“Uno dei modi in cui l’ho descritto, quando cercavo finanziamenti, era semplicemente come una tragedia familiare che si inasprisce fino a diventare un incubo — nello stesso modo in cui la vita può sembrare un incubo quando tutto sta andando a pezzi. Sento che il film deve quasi di più al melodramma domestico che al genere horror, nel modo in cui cerca di onorare le emozioni estreme che i personaggi stanno vivendo. È un film che parla di persone che soffrono, e spero che sia un film che prende sul serio la sofferenza”.
Hereditary ha ricevuto oltre 50 premi e più di 100 candidature in tutto il mondo. La performance di Toni Collette, celebrata da critici e dal pubblico, è stata il cuore emotivo del film, seppur clamorosamente esclusa dagli Oscar.
‘Midsommar – Il villaggio dei dannati’: la luce non salva

Florence Pugh in “Midsommar“
Con Midsommar – Il villaggio dei dannati (2019), Ari Aster consolida la sua reputazione di maestro dell’horror non convenzionale. Il film segue un gruppo di studenti americani che si reca in un’isolata comunità rurale per assistere a un leggendario festival estivo scandinavo. Ciò che inizialmente appare come un’esperienza culturale idilliaca si trasforma gradualmente in un incubo psicotropico.
In Midsommar, Aster costruisce un’illusione sapiente. Una comunità apparentemente accogliente, regolata da riti antichi, scandita da una ciclicità naturale che si contrappone all’alienazione del mondo moderno. Per la protagonista Dani (Florence Pugh), reduce da un trauma devastante e isolata in una relazione affettiva svuotata, il villaggio di Hårga rappresenta inizialmente una promessa. Un luogo dove il dolore può essere condiviso, dove esiste un linguaggio del pianto collettivo, dove ogni cosa ha un posto preciso all’interno del ciclo. Ma dietro questa struttura armonica si cela una violenza ritualizzata, sistematica, quasi burocratica. La comunità non libera Dani ma la assimila. Nel tentativo di riconoscersi, la ragazza finisce col trovare un ruolo.
In Midsommar, la comunità è al tempo stesso rifugio e carcere, famiglia e setta, terapia e sacrificio. E proprio come nei suoi cortometraggi, Aster ci mostra come dietro ogni desiderio di guarigione possa nascondersi un bisogno disperato di controllo, e dietro ogni appartenenza, una minaccia di perdita del sé.

Il film ha incassato 48 milioni di dollari e si è posizionato al quattordicesimo posto dei migliori film del 2019 dal critico David Ehrlich, e all’ottavo da Kylie Hemmert.
‘Beau is afraid’: la madre di tutte le ansie

Joaquin Phoenix in “Beau is Afraid“
Beau is Afraid (2023) rappresenta probabilmente il film più audace di Ari Aster. È un’opera-mondo, un labirinto psichico che mescola horror, commedia nera e surreale odissea esistenziale. Qui Aster si libera definitivamente dai vincoli di genere, immergendosi in una narrazione fluviale dove il tema materno esplode in una rappresentazione totalizzante dell’ansia e della paralisi emotiva. In questo modo, il regista realizza un viaggio kafkiano dentro l’ansia e la colpa. Il protagonista (Joaquin Phoenix) non riesce mai a emanciparsi, né a comprendere se ciò che vive sia reale o frutto della propria psicosi.
Ari Aster ha descritto la collaborazione con Joaquin Phoenix come una delle esperienze più significative della sua carriera. In un’intervista ha dichiarato:
“Lavorare con Joaquin è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Sono molto orgoglioso della sua interpretazione e lo adoro”.
Beau Is Afraid è stato accolto con una reazione mista da parte della critica. Un notevole apprezzamento è stato trovato tra i colleghi di Ari Aster. John Waters ha definito il film “super lungo, super pazzo e super divertente”, elogiandone la follia e la bravura del cast. Robert Eggers lo ha descritto come “un capolavoro orribile, impegnativo ed essenziale”, mentre Martin Scorsese, già un grande sostenitore di Aster, ha definito il regista una delle voci più straordinarie del cinema contemporaneo, lodando la sua capacità di sovvertire la tradizionale struttura in tre atti.
‘Eddington’: il nuovo film di Ari Aster a Cannes

Eddington(2025) sarà presentato in anteprima alla 78° edizione del Festival di Cannes. Il film è stato selezionato per la competizione ufficiale, dove concorrerà per la Palma d’Oro insieme ad altri titoli quali The Phoenician Scheme di Wes Anderson e Nouvelle Vague di Richard Linklater.
La storia è ambientata nella cittadina di Eddington, nel Nuovo Messico, durante le prime fasi della pandemia di COVID-19, che si ritrova divisa da tensioni sociali e politiche. Lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) e il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal) si scontrano su come gestire l’emergenza, mentre una coppia di viaggiatori, bloccata in città, scopre che dietro la facciata di normalità si nascondono inquietanti segreti.
Qui per sapere di più sulle opere più attese del Festival di Cannes 2025, e il programma.
L’universo cinematografico di Ari Aster: tra omaggi e influenze
Il cinema di Ari Aster è un crocevia di ossessioni personali e riferimenti colti, a cavallo tra l’horror classico, il teatro tragico e il cinema d’autore europeo. In più interviste, Aster ha dichiarato di non considerarsi un “regista horror”, ma un autore che lavora all’interno del trauma, utilizzando il linguaggio dell’orrore per raccontare il dolore umano con la stessa solennità della tragedia greca.
Uno dei suoi modelli principali è Ingmar Bergman, in particolare per la sua capacità di esplorare le dinamiche familiari e la psiche umana. In un’intervista, Aster ha affermato:
“Bergman è una grande influenza. L’idea di esplorare l’interiorità di un personaggio, la complessità delle emozioni e delle relazioni familiari, è qualcosa che trovo fondamentale.”
Inoltre, il regista ha dichiarato di essere affascinato da un altro grande del cinema horror, Roman Polanski. In particolare, nutre un’ammirazione particolare per Rosemary’s Baby (1968), una delle pietre miliari del genere:
“Polanski ha un’incredibile capacità di fare crescere l’ansia e la paura attraverso l’atmosfera e i dettagli più piccoli“.