Come e su quali basi nasce la collaborazione tra le vostre case di produzione?
Simone Isola: Ho conosciuto Francesco tramite amicizie comuni, e già durante il primo incontro gli parlai di un film che inseguivo da molti anni e che Kimerafilm era in procinto di realizzare, Il contagio. A volte il caso genera felici combinazioni: Francesco aveva letto ed apprezzato il romanzo, mostrandosi sin da subito interessato ad intervenire nella produzione. È stato un partner di produzione ideale, attento, partecipe. Abbiamo apprezzato tutti, compresi i registi, i suoi consigli e la sua sincera disponibilità. Mi auguro che ci sia senz’altro la possibilità di lavorare insieme su nuovi progetti.
Francesco Dainotti: Ho avuto modo di conoscere Simone Isola, di cui già apprezzavo il suo lavoro di produttore, in particolar modo per Non essere cattivo, uno dei film italiani più belli e coraggiosi prodotti negli ultimi anni. Per questo, quando si è presentata la possibilità di lavorare insieme ne sono stato subito entusiasta. La nostra collaborazione è nata e si basa su una profonda stima reciproca, tanto umana quanto professionale, e su un modo comune di intendere e fare cinema.
In una congiuntura economica come quella contemporanea, in cui pochi film di quelli realizzati riescono ad arrivare nelle sale, vi chiedo cosa vi ha spinto a intraprendere la strada della produzione.
S. I.: Diciamo che nel 2009, quando è iniziata l’attività produttiva di Kimerafilm, i contesti produttivi e di mercato erano molto diversi. Oggi è ancora più difficile valorizzare i prodotti che vengono realizzati, nonostante l’apprezzamento di critica e addetti ai lavori. Raggiungere un pubblico più vasto e dare valore alle proprie produzioni sono obiettivi che ogni produttore indipendente deve porsi quanto prima per non rimanere schiacciato a modelli del passato che vanno forzatamente aggiornati.
F. D.: Questa è una domanda che mi sento fare molto spesso. Personalmente, credo che il ruolo del produttore non sia solo quello di chi procaccia fondi per produrre un film, ma che coincida con una visione artistica di ciò che si vuole produrre per raccontare. Penso, innanzitutto, che quello che si produce debba coincidere necessariamente con la voglia di raccontare qualcosa che sia vicino alla visione della realtà che ci circonda, senza dimenticare che il pubblico è il destinatario finale di un film. Per il resto, bisogna avere il coraggio di credere nei propri progetti ed essere accompagnati da un pizzico di sana follia.
La figura del produttore mecenate, alla Franco Cristaldi tanto per intenderci, è stata sostituita da un’altra che assomiglia di più a un collettore di soldi altrui. È così anche per voi e se no, quali sono le differenze che derivano dalla vostra esperienza?
S. I.: Io ritengo riduttivo considerare Franco Cristaldi un “mecenate”. La sua figura è quella di uno straordinario imprenditore convinto che gusto e qualità artistica non siano contrari al successo economico di un’opera cinematografica. E’ una visione che può essere condivisa e rilanciata ancora oggi, tenendo presente che i modi di finanziare il cinema sono cambiati profondamente e che è impossibile paragonare epoche così diverse. Oggi i produttori indipendenti hanno pochissimi margini, non hanno strutture interne per sfruttare commercialmente le opere che realizzano; sono più che mai produttori di “contenuti” che poi vengono gestiti da altri rami della filiera.
F. D.: Franco Cristaldi è stato certamente un grande produttore, che non definirei propriamente un “mecenate” e che ha avuto la forza e la lungimiranza di riuscire a portare il cosiddetto cinema d’autore al grande pubblico e, certamente, rappresenta un punto di riferimento produttivo importante. Oggi ci troviamo in un’altra epoca della storia del cinema, che prevede nuove modalità produttive e distributive, come per esempio il web. Al giorno d’oggi sarebbe impossibile fare ed intendere la produzione cinematografica così come allora. Credo sia necessario avere un’idea ben precisa del tipo di cinema che si vuole produrre, senza preclusioni elitarie, e lavorare sodo per raggiungere gli obbiettivi prefissati.
Nel vostro listino appaiono soprattutto opere prime e seconde. È solo una coincidenza o questo sotto intende una specifica linea editoriale?
S. I.: La linea editoriale di Kimerafilm si è finora concentrata soprattutto sul cinema d’autore, con uno sguardo attento alla marginalità. Questa impostazione è chiaramente compatibile con la produzione di opere prime; ogni progetto nasce da uno spunto creativo ritenuto interessante, ed è questo il principale paramento di selezione. Per prendere forma, però, un film attraversa una fase di sviluppo che può essere molto lunga, andando incontro ad infinite variabili, adattamenti. La selezione si compie soprattutto nella fase iniziale, poi un progetto diventa un film grazie ad una serie di condizioni favorevoli che non sempre incontrano altri progetti, magari anche più meritevoli.
F. D.: Per quanto mi riguarda non esiste una regola predefinita. Solitamente leggo i soggetti o le sceneggiature che mi vengono proposte e se riesco a legarmi alla storia, ad emozionarmi, inizio ad approfondire la possibilità di una futura produzione. C’è sicuramente una linea editoriale che si concretizza nella volontà di trovare nuovi linguaggi narrativi, incoraggiando giovani talenti in cui credo. È il caso di Matteo Botrugno per Il contagio e di Alessandro Di Ronza per Il principe delle pezze. Inevitabilmente, il tutto coincide spesso con la produzione di opere prime, proprio perché dotate di quella freschezza e quel coraggio tipico dei giovani esordienti.
Non essere cattivo per il fatto di essere diretto da Claudio Caligari potrebbe essere un eccezione alla regola ma allo stesso tempo visto che il regista non dirigeva un film da moltissimo tempo, di fatto si è trattato di un nuovo esordio. Considerate anche le condizioni di salute di Caligari, volevo chiederti che sfide avete affrontato per produrlo.
S. I.: Produrre Non essere cattivo è stato senza dubbio l’impresa più complessa affrontata da Kimerafilm. Il tempo a disposizione era purtroppo poco, le condizioni di salute di Caligari molto gravi. Il nostro impegno era di mettere in moto al più presto la macchina produttiva ed organizzativa del film. Va riconosciuto l’eccezionale impegno di Valerio Mastandrea, che ostinatamente è riuscito nell’impresa di gestire una situazione, artistica ed umana, che necessitava di spalle molto larghe per essere affrontata. Merito infine del coraggio e della dedizione che Caligari ha offerto al suo film, che lo ha completamente assorbito nei suoi ultimi mesi di vita.
Il film di Caligari ha lanciato una vera e propria tendenza sia nei temi che nell’ambientazione. Che effetto vi fa?
S. I.: Considero da sempre quello di Claudio Caligari un cinema “popolare” nel senso più puro del termine, che dialoga con il proprio pubblico ponendosi ad un livello di osservazione al tempo stesso raffinato ma anti-intellettuale, e soprattutto privo di qualsiasi moralismo residuale. Sono contento se tale sguardo viene condiviso con sincerità in altre produzioni, abbracciando forse una tenue speranza, popolare e non populista, verso una società e un cinema che sappiano guardare alle loro spalle e riconoscere se stessi. Una sfida che va però portata avanti con sincerità, senza intenti speculativi, ma che in un momento di profonda incertezza creativa vale la pena affrontare.
In questo senso Il contagio di cui sono appena terminate le riprese potrebbe essere un degno successore del film di Caligari. Come siete riusciti ad ottenere i diritti del libro di uno scrittore importante qual è Walter Siti e in che maniera avete deciso di affrontare il testo dato che si tratta di un libro “visivamente” scabroso?
S. I.: Grandi autori del cinema italiano, non faccio nomi ma assicuro sono molto autorevoli, hanno provato inutilmente a realizzare un film da Il contagio. Walter Siti ha subito accolto la nostra proposta con grande entusiasmo; durante la fase di sviluppo ha seguito soprattutto le prime stesure della sceneggiatura dando diversi consigli agli autori. Tra il libro e il film c’è anche lo spettacolo teatrale che Nuccio Siano ha tratto proprio dall’opera di Siti, andato in scena dal 2008 in tre edizioni, e che è stato un ulteriore riferimento per la scrittura della sceneggiatura. E’ un testo complesso, attraversato da numerosissimi personaggi. Non credo si tratti di un libro scabroso, in realtà in quella crudezza ci sono innumerevoli schegge di poesia.
F. D.: Francamente, credo (e mi auguro) che Il contagio sia un film che sarà in grado di far parlare molto di sé. È un film d’autore che parla in maniera semplice anche al grande pubblico. È una storia di straordinaria bellezza, ricca di poesia dei nostri giorni raccontata alle persone dei nostri giorni. Non credo sia particolarmente scabrosa, nonostante il linguaggio molto duro e crudo che, forse proprio per questo, è in grado di donare una maggior poesia al testo.
Il film di Botrugno e Coluccini (autori del cult Et in terra pax) presenta un cast di attori famosi: come avete fatto a far quadrare i conti?
S. I.: Per realizzare un film ambizioso con un budget limitato è necessario un pesante sforzo non solo produttivo, ma anche organizzativo. Devo dire che la natura “corale” del racconto ha facilitato la formazione di un cast al tempo stesso composito e prestigioso. Tutti gli attori hanno abbracciato la causa del film con grande disponibilità.
Il cinema italiano ha bisogno di ricostruirsi una sua platea. D’altro canto i vostri titoli trattando temi seri e socialmente importanti potrebbero spaventare il fruitore di cinema mainstream. Volevo chiedervi se vi siete posti il problema e se sì quali strategie avete adottato per ampliare il pubblico dei vostri film.
S. I.: Io credo che ormai sia difficile trovare argomenti o temi di sicuro successo. Tanto vale allora essere liberi di sviluppare le storie che si ritengono più interessanti, tenendo sempre presente il target da coinvolgere, modulando coerentemente la proposta produttiva con gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
F. D.: Io, invece, sono convinto che oggi ci sia l’esigenza di film un po’ diversi dal solito, capaci di trattare temi sociali senza dimenticare che il cinema è anche intrattenimento puro. Noi, infondo, raccontiamo storie attraverso la magia del grande schermo poi sarà il pubblico a decretare se le nostre scelte sono state quelle giuste.
Esiste da parte vostra un piano legato alla distribuzione dei film mirato ad aumentare la visibilità dello stesso? Parlo anche dello sfruttamento di altre piattaforme pubblicitarie che non siano quelle dei quotidiani e della televisione.
S. I.: Il mercato si espande verso nuove piattaforme che si vanno rapidamente diffondendo e diversificando a loro volta. Non è più possibile trascurare queste nuovi canali di sfruttamento. Una società di produzione indipendente deve in tal senso stringere stabili sinergie con operatori che sanno sfruttare commercialmente le opere sui diversi mercati. E’ una direzione che necessita di continuo studio e aggiornamento, una strada ormai obbligata per rafforzare la catena del valore di ogni produzione.
F. D.: Assolutamente. Pensare ad una strategia distributiva di un film oggi, eludendo le nuove possibilità che ci vengono offerte dal web e dalla tecnologia, sarebbe una scelta fallimentare, dimostrando una totale incapacità di adeguarsi ai tempi. Ormai, esistono così tante piattaforme di pubblicità, per molti aspetti anche più efficaci dei media tradizionali perché capaci di creare interazione, che non includerli nella propria strategia porterebbe alla perdita di un target sempre più in crescita.
Infine vi vorrei lasciare chiedendovi di dirmi cosa bolle in pentola nel prossimo futuro.
S. I.: Abbiamo appena terminato la produzione, oltre che de Il contagio, dell’opera prima di Valerio Mastandrea, Ride. Ora siamo concentrati sulla post-produzione di entrambi i film, dopo l’estate inizieremo a ragionare più concretamente su nuovi progetti.
F. D.: Io mi auguro di continuare la collaborazione che è nata con Simone Isola, magari con un prossimo lungometraggio al quale ho iniziato a lavorare per una futura produzione. Al momento, ho appena terminato la post-produzione di un mediometraggio a sfondo storico, Confinati a Ponza, e sono in procinto di finire le riprese di un documentario, Il principe delle pezze di Alessandro Di Ronza, che racconta la storia di un personaggio da favola (Catello Russo) e del mondo dei costumi che hanno collaborato a rendere famoso nel mondo il cinema italiano, attraverso costumisti quali Piero Tosi, Gabriella Pescucci e Colleen Atwood.
Che ti tipo di rapporto avete con l’opera e il suo regista: esistono patti di ingerenza prestabiliti, final cut o massima libertà? E soprattutto il vostro intervento avviene prima, durante o dopo la lavorazione del film?
S. I.: L’intervento del produttore credo debba avvenire soprattutto in fase progettuale e di post-produzione. In fase di ripresa, una volta definito il progetto nei minimi dettagli, credo sia necessario fare un passo indietro e lasciare l’autore libero di esprimere la sua creatività. Non si tratta di ingerenza, ma di rispettare i reciproci ruoli. Nessun produttore vuole il male del film che sta realizzando.
F. D.: È chiaro che non esiste alcun patto preordinato. Io lavoro solo con persone per le quali nutro stima e fiducia reciproca. Ciò non toglie che nella parte preparatoria di un film o nella fase di post-produzione possano esistere degli scambi e delle valutazioni che si possono trasformare in consiglio, che possono essere accolti per il bene del film o non per vano ego personale. Bisogna dare massima libertà creativa al regista in tutte le sue espressioni, senza dimenticare che il lavoro ha comunque bisogno di condivisione per poter funzionare in tutto il suo percorso.