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Conversation

Cuori puri: intervista a Roberto De Paolis, il regista del film presentato con grande successo alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes

Di ritorno dal festival di Cannes dove il suo film è stato presentato con buon successo alla Quinzaine des Réalisateurs, abbiamo chiesto a Roberto De Paolis di parlarci di Cuori puri

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Il tuo film ha le caratteristiche per piacere al pubblico che di solito ha qualche pregiudizio nei confronti del cinema d’autore perché di  fatto è una storia d’amore forte e credibile ma allo stesso tempo di facile fruizione. L’avevi pensato così?

Si, sotto il profilo del linguaggio sono quei film che mi sono sempre piaciuti. Un cinema che in un modo o nell’altro è capace di esplorare il territorio di mezzo tra finzione e documentario, un cinema che vuole essere prepotentemente vero. A livello di contenuti Cuori puri si è costruito da solo, attraverso il lavoro di ricerca che abbiamo fatto per comprendere mondi che non conoscevo come quelli dei campi nomadi e delle comunità religiose, della periferia e della disoccupazione. In più, c’era il fatto di voler raccontare questi contesti attraverso gli occhi dei personaggi, cosa che ha comportato un lungo lavoro. Il processo che si è messo in moto ci ha portato all’interno di contesti che abbiamo finito per non controllare più. In questo senso dico che il film si è fatto da solo, perché sono state le suggestioni e la fascinazione in cui mi hanno traghettato le persone che abbiamo conosciuto lungo il percorso a guidare i nostri passi. Seguendo loro mi sono ritrovato in ambienti che non avevo previsto e con un materiale che poi, grazie all’aiuto degli sceneggiatori, abbiamo provato a riordinare all’interno di una drammaturgia e di una storia.

Pur sapendo che dietro Cuori puri esiste una sceneggiatura la sensazione è che nel  film le cose accadono liberamente, senza quei calcoli a tavolino che segnalano la presenza di un demiurgo esterno.

Se questo si percepisce è dovuto al lavoro di improvvisazione degli attori che si sono resi disponibili ad abbandonare il testo per mettersi in discussione in una maniera profonda perché fare a meno della sceneggiatura, della battuta e della memoria significa perdere delle certezze per entrare in un territorio ignoto dove non sai cosa succede. Tale “mancanza” si è trasferita sul set in un surplus di attenzione e reattività che ha influito anche sul piano formale nella realizzazione del film, perché l’operatore non sapendo cosa sarebbe successo e come gli attori si sarebbero mossi era costretto a tenere la camera sempre viva. Tornando alla performance degli attori penso che se  questa predisposizione è lecita aspettarsela da artisti esordienti come Simone Liberati e Selene Caramazza (protagonisti del film) ciò che mi ha stupito è la disponibilità di Barbora Bobulova,  di Stefano Fresi e di Edoardo Pesce, i quali si sono prestati al gioco, amalgamandosi con il contorno che per la maggior parte era formato da attori non professionisti.

Una sfida vinta è quella di trasformare i tuoi attori (professionisti) in corpi sociali. Per l’energia che gli attori trasmettono sullo schermo Simone Liberati e Selene Caramazza sembrano infatti persone prese dalla strada. Dopodiché se fossimo in America uno con il carisma e la fisiognomica di Liberati sarebbe paragonato al nuovo Johnny Deep.   

Ancora una volta, tutto dipende dalla disponibilità degli attori perché nessuno impedisce di lavorare con loro come fossero attori sociali, e quindi di scavare nella loro vite e di proiettarli negli ambienti e nelle relazione dei personaggi attraverso la loro forza e la loro vulnerabilità. Selene e Simone hanno tirato fuori così tanto del loro privato che abbiamo deciso di cambiare la sceneggiatura per adeguarla il più possibile a ciò che sono realmente e alle normali reazioni che hanno nel loro quotidiano. E’ una cosa che si può fare anche con attori più strutturati, a patto che questi siano d’accordo: Stefano (Fresi) per esempio è venuto con me a Messa più volte per vedere il prete a cui il suo personaggio era ispirato mentre con Barbora abbiamo parlato molto dei suoi modi di essere, della sua durezza e della sua premura nei confronti dei figli che, anche se non è la stessa della madre di Agnese, ha comunque contribuito a creare un vissuto famigliare e uno spazio dove lei poteva essere più se stessa e un po’ meno il suo personaggio.

Rispetto al cinema degli anni ’80 che si diceva fosse fatto dentro “due camere e cucina” quello della tua generazione cerca nuovi spazi ritornando a frequentare le strade e le città. Per cercare cosa?

Ma non lo so, è un discorso complicato che richiederebbe strumenti che al momento non ho. Forse si va sempre di più verso l’individualismo che ci porta a vivere soli in queste case dove siamo tutti autosufficienti e in cui nessuno sente più il bisogno di condividere qualcosa. Quando a Roma quattro anni fa ha nevicato mi sono ritrovato per strada insieme a tante persone che volevano godersi quel momento e lì ho avuto la visione di ciò che poteva succedere negli anni 50, un’epoca in cui le persone sentivano ancora il bisogno  di ritrovarsi e di condividere sentimenti e sensazioni. Ecco, forse questi film cercano disperatamente di ritrovare questa dimensione e di reagire uscendo nello spazio aperto e rimettendosi sulla strada.

A questo proposito la borgata nella sue accezioni più marginali e subalterne è diventata lo spazio privilegiato di certo cinema d’autore. Secondo te come mai?

L’unica spiegazione che ti posso dare è che forse c’è una maggiore ricerca dell’azione. Il dramma borghese si fa su problemi della fantasia. Chi vive nel benessere economico ha risolto le questioni pratiche della vita e diventa più facilmente vittima dei fantasmi della mente. Su questo argomento sono stati fatti delle opere meravigliosi in cui l’azione è sostituita dalla stasi e nella riflessione. Al contrario i film a cui ti riferisci hanno dei protagonisti alle prese con problemi basici tipo quello di procurarsi da mangiare. In Cuori puri Stefano  per portare a casa 800 euro deve vedersela con gli zingari che gli tirano i sassi e fare i conti con la disastrosa situazione in cui versano i suoi genitori. Il risultato di tutto questo è una drammaturgia più dinamica, vicina a quella di un film d’azione. Soprattutto per un esordio questa tipologia di cinema un po’ ti aiuta perché quando devi mettere in scena dei fatti sei in qualche modo facilitato. Entrare nella mente e nelle fantasie del dramma borghese è più complesso e richiede un’esperienza che devo ancora acquisire.

Nel raccontare uno spazio così sfruttato una delle possibilità che tu riesci a evitare è quello di una certa omologazione. In generale mi viene da pensare che uno dei modi per scongiurarla sia il modo con cui i registi decidono di occupare lo spazio. Come ti sei posto risposto a questo problema?

E’ il discorso degli stereotipi che di solito si presentano quando  racconti cose che non conosci. Qui, come dicevamo prima, c’era la comunità degli zingari, e quella religiosa, il coatto di periferia, la madre bigotta, il prete buono, la ragazzina casta, insomma temi e personaggi che rischiavano di portare il film dalla parti di una certa maniera. Per quanto mi riguarda ho cercato di evitarlo guardando la realtà dal punto di vista dei ragazzi e non da quello del regista o degli autori. Così i rom sono descritti come una collettività fatta di persone anche aggressive, volgari e vendicative perché è così che li percepisce il protagonista. Analogamente la comunità religiosa e il prete sono rappresentati con caratteristiche di accoglienza e calore umano non perché io lo pensi così ma poichè in quel luogo la protagonista trova conforto e protezione. Procedendo in questo modo si è un po arginato il problema degli stereotipi altrimenti i rom sarebbero stati buoni perché noi autori di sinistra vogliamo farli passare come vittime del sistema mentre il prete avrebbe fatto la figura di una personaggio negativo perché così viene visto dalle persone e nell’ambiente da cui provengo. Al contrario, trovare il punto di vista dei protagonisti è interessante anche perché offre al regista la possibilità di uscire fuori da abitudini che non sono sue ma che ha appreso da altri durate la sua crescita. O almeno, questo è stato il tentativo.

A proposito di retorica e di come tu riesci a evitarla lo si vede per la questione dei rom di cui mostri le due facce della stessa medaglia senza pistolotti nè sermoni, ma permettendo allo spettatore di farsi la propria idea ricavandola da ciò che succede sullo schermo.

Si, non c’è giudizio credo, anche perché il punto di vista è quello dei ragazzi, i quali, a loro volta, essendo molto confusi e così sotto pressione anche quando sbagliano finiscono per avere sempre il pubblico dalla loro parte. Le decisioni a cui sono chiamati Stefano e Agnese sono talvolta così estreme che lo spettatore non se la sente di giudicarli fino in fondo.

Considerando che nel tuo film attraverso le frequentazioni di Agnese e di sua madre si parla anche di catechesi religiosa, ho apprezzato per contrasto il fatto che la purezza dei ragazzi si riveli non da qualcosa di astratto come i dogmi e i precetti ma dagli aspetti più concreti e materiali della vita. Penso a Stefano, di cui conosciamo l’anima nel momento in cui deve decidere se lasciare andare Agnese o meno che ha appena rubato il telefonino. Oppure penso al sangue che Agnese, dopo aver fatto l’amore, si sparge sulle gambe e sul ventre a materializzare il senso di colpa che segue al fatto di aver perso la verginità. Il tuo è un cinema che non ha paura di sporcarsi per arrivare alla verità.

Oddio, non lo so. Credo che nel film la purezza sia intesa anche in senso negativo: i due ragazzi sono puri per come traspare il loro desiderio di crescita, di verità e nella ricerca di un confronto morale con chi gli sta vicino. Questo succede soprattutto con il personaggio di lui nel quale in tutte le scelte si percepisce un conflitto interiore che lo porta a mettersi in discussione e a volte a ritornare sui propri passi. Come ti dicevo però la purezza è declinata anche in senso negativo, come incapacità di tendere verso l’altro, di mischiarsi con ciò che è diverso. In fondo il parcheggio e il corpo della ragazza sono due luoghi che devono rimanere incontaminati per la paura di incontrare il diverso da sé. E’ una purezza che evita qualsiasi confronto e che coincide con il voler rimanere barricati nella propria identità. Noi abbiano provato a lavorare sul conflitto che vedeva da una parte il desiderio dell’altro e, dall’altra, la paura del contatto. Anche nella comunità di lei in fondo, dove tutti sono molto simili, il diverso rischia di rimanere fuori.

Allacciandomi a ciò che dici un’altra caratteristica di Cuori puri è quello di essere politicamente scorretto. Una scena come quella in cui Stefano e l’amico bullizzano il venditore extra comunitario sarebbe impensabile in qualunque film mainstream perché metterebbe il protagonista in cattiva luce.

Il privilegio di produrre il film da soli è quello di poter andare fino in fondo senza nessuna preclusione. Nel personaggio maschile c’è sicuramente un razzismo che deriva dalla paura nei confronti degli immigrati, così come da parte di lei l’accoglienza dei precetti religiosi e delle persone della sua comunità si manifesta in maniera acritica e a prescindere da tutto il resto. Poiché tutti questi temi sono stati trattati dal loro punto di vista, anche volendo non si poteva adottare una prospettiva borghese e buonista altrimenti sarebbe stato un altro film. D’altronde non apprezzo quel cinema che cerca di riequilibrare le ingiustizie della società e che per esempio ama mostrare gli zingari sempre buoni perché nella vita reale vengono messi ai margini, oppure che punta il dito contro la chiesa per vendicarsi del suo potere temporale.

A proposito volevo chiederti della scena in cui i ragazzi fanno l’amore. Il tuo modo di filmarla è inedito per il nostro cinema. Invece di renderla in maniera parziale attraverso il montaggio di singole parti tu realizzi quasi un piano sequenza in cui la durata della scena e tutto ciò che vediamo serve per renderne la sacralità dell’atto. L’effetto che fa è davvero forte cosa, che non mi capitava di sperimentare dai tempi de La vita di Adele.

Ti ringrazio per questa analisi così approfondita. Io ero partito da qualcosa di più semplice che in qualche maniera era la conseguenza di ciò a cui ruotava attorno il film e cioè la perdita della verginità da parte della ragazza. E’ molto frustrante quando nel cinema il sesso viene escluso. Non è che uno deve per forza far vedere la penetrazione. Si può raccontare in profondità una scena di sesso senza che diventi un passaggio troppo erotico, troppo spinto. Tornando  alla scena in questione penso che ci fosse la necessità di raccontare in che modo i due ragazzi vivevano quel momento. Per lei è il punto cruciale del film ma non di meno lo è anche per lui che conosce nell’intimo il conflitto che tormenta la ragazza in merito alla decisione più giusta da prendere. Stefano è un ragazzo abituato a stare solo e che a un certo punto si innamora di Agnese. Per questo motivo credo che in quel passaggio lui abbia la sensazione che possedendola attenuerà il rischio di perderla. Allo stesso tempo si rende conto che forse sta andando un po’ troppo oltre. Era quindi importante vedere come i ragazzi avrebbero reagito a quel momento. I primi piani dei volti e sui corpi dei protagonisti non erano dettati dal sensazionalismo ma appunto dal fatto che mi permettevano di leggere al meglio le paure e le incertezze di Stefano e Agnese.

La sceneggiatura del film è molto omogenea eppure è il frutto di un lavoro a più mani. Come si fa a ottenere l’unisono che avete raggiunto scrivendo Cuori puri?

In realtà c’era una sorta di narratore principe rappresentato dall’esperienza che stavamo facendo mentre raccoglievamo il materiale. Noi poi abbiamo solo organizzato ciò che abbiamo raccolto. In un film che viene fuori dalla fantasia il discorso sarebbe stato più complicato invece qui abbiamo lavorato da documentaristi, e in realtà abbiamo messo insieme le cose che abbiamo visto. Poi, se si è in ascolto uno dell’altro com’è successo a noi succede che spaziare da un punto di vista all’altro aiuti a migliorare lo sviluppo della storia.

Prima di diventare regista eri un fotografo, quindi mi incuriosiva conoscere in che maniera hai lavorato con il direttore della fotografia Claudio Cofrancesco.

Abbiamo lavorato in maniera molto semplice. Intanto avere a che fare con attori che erano liberi di muoversi dove volevano ha portato subito all’uso della macchina a mano che evitava la possibilità di non riuscire a mettere gli attori all’interno del fotogramma, soprattutto Simone che improvvisando tantissimo rischiava di rimanere fuori dall’inquadratura. Decidendo per la macchina a mano è venuto naturale l’uso delle luci naturali. Ragion per cui dovevamo solo decidere come metterci di fronte alle luci che c’erano già. E’ stato un processo semplice.

Una domanda che faccio quasi sempre è chiedere agli intervistati i loro gusti cinematografici e di farmi qualche titolo dei loro film preferiti.

Da spettatore vedo qualsiasi cosa. Per questo film abbiamo cercato di studiare tutti quei film che indagano il territorio che si trova tra il documentario e la finzione. C’e uno spazio in cui questo dialogo è forte: penso al cinema rumeno degli ultimi anni e a quello francese  ma anche a certi documentari degli anni ’60 al Free Cinema inglese. Un movimento trasversale in cui grandi registi hanno spinto il cinema verso il documentario e viceversa.

Di quello italiano invece cosa prediligi?

Sull’onda del cinema europeo anche l’Italia si è svegliata. Penso al Giovannesi di Alì ha gli occhi azzurri che mi ha molto colpito e poi a Fiore che ho visto mentre stavo iniziando a girare il mio film. E ancora al primo film di Alice Rohrwachwer in cui c’era un forte realismo e poi al Minervini di Stop the Pounding Heart. Non li posso citare tutti ma c’è ne sarebbero molti altri.

Per esempio i film dei fratelli Dardenne?

I Dardenne per un regista sono come Leonardo Da Vinci, è chiaro che sono film che uno studia e ristudia allo stesso modo con cui ogni anno  si va a Firenze ad ammirare il David di Michelangelo. E’ una cosa strutturale in ognuno di noi, è come se uno lo avesse dentro senza bisogno di esserne ispirati.

 

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