Intervista a Fabiana Sargentini
Potete andare a vedere La Pitturessa al Farnese il 28 maggio, oppure il 18 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ormai funziona così: non c’è solo la programmazione regolare, mainstream, figlia di accordi commerciali tra produttori ed esercenti. Oggi i distributori organizzano “debutti”, come se si fosse a teatro. Uscite capillari, differenziate, ben congegnate, tanto da divenire un evento caloroso, capace di raccogliere amici, appassionati, curiosi, quasi sempre cinefili attenti a ciò che di meglio e di prezioso offre il panorama dell’audiovisivo.
Sabato 18 maggio Accademia di Belle Arti di Roma, il 23 a Bologna e il il 31 all’inaugurazione dello storico Azzurro Scipioni appena ristrutturato. Il 28 maggio la proiezione tornerà nella suggestiva cornice del Cinema Farnese, gestita dal creativo e instancabile Fabio Amadei capace di rendere ogni stagione più accogliente e stimolante. É qui che abbiamo incontrato Fabiana Sargentini per farci raccontare la sua esperienza di regista che si riflette con La Pitturessa in quella di un’artista: la madre Anna Paparatti. Tracciare il ritratto di questa pittrice significa anche ripercorrere il panorama dell’avanguardia romana degli anni ’60 e ‘70.
Ma Anna Paparatti, nella sua lunga e curiosa vita d’artista, è stata anche compagna, viaggiatrice, madre, e infine, quasi fuori tempo massimo, musa ispiratrice di una nota sfilata di Dior (estate 2022) progettata grazie alla direttrice creativa della maison francese, Maria Grazia Chiuri. Da questo stimolo nasce il film, a detta della regista: il riscatto della madre testimonia come la sua arte sia capace di curare, nutrire, portare gioia, innanzitutto a chi la pratica.
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Fabiana Sargentini intervistata nel foyer del Cinema Farnese
Nel film emergono alcuni temi guida, ad esempio l’arte come necessità espressiva. Comprendiamo che Anna, tua madre, si sia rifugiata nell’arte per evadere da un quotidiano adolescenziale in cui si sentiva stretta, incompresa, chiusa nella sua cameretta a volte anche senza mangiare: siamo nella Calabria degli anni ‘50.
Credi che nel corso della vita Anna Paparatti sia riuscita, grazie alla pittura, a sanare quel conto in sospeso con la possibilità di essere compresa?
Penso che a mia madre, durante l’infanzia, sia mancato l’amore più che la comprensione. Attraverso la pittura è riuscita a farsi amare? Non so … Di certo l’urgenza espressiva colma il disagio che la portava a isolarsi dal mondo familiare. Scoprire a quindici anni di avere talento per la pittura per lei è stato come una rivoluzione: da quel momento trova la sua isola deserta dove essere felice. Ha vissuto tutta la vita da artista, attraverso mille sfaccettature differenti, nelle diverse epoche che ha vissuto.

Vita come cura. Nel film dici esplicitamente che tua madre ti ha insegnato a prenderti cura delle cose, degli oggetti. Del resto vediamo il panorama domestico della Paparatti costituire una specie di “secondo abito”, una scenografia reale imprescindibile per contestualizzare e definire la sua identità di donna e di artista. Lo stesso pittore Luca Padroni che interviene nel film, tuo marito, dopo un soggiorno passato a casa di tua madre una decina di anni fa, decide di immortalare quello spazio con una serie di quadri.
Quanto ha contato per te poter indagare questo spazio intimo con la macchina da presa? Ti ha svelato qualcosa di nuovo che non avevi mai visto prima? Puoi partire da un oggetto preciso?
La casa sul fiume Tevere, da cui io e mio padre in momenti diversi ci siamo allontanati, è una casa museo in cui ogni oggetto racconta qualcosa. Narrarla con un film è stato naturale tanto quanto è stato naturale per mia madre ritrovarsi davanti a un obiettivo cinematografico. Cosa che non sapevo né avrei potuto immaginare prima di girare. L’oggetto che mi ha parlava maggiormente non è più tra quelle mura ed è il cavallo di peluche a grandezza naturale che ha dominato il salone per anni.
Era stato noleggiato per le settimane della rappresentazione di uno spettacolo messo in scena da mio padre, ma, al momento della restituzione, ci era stato detto che si era rovinato e mio padre era stato obbligato a comprarlo, a caro prezzo. Per anni, durante le numerose feste di compleanno, generazioni di miei amici sono saliti in groppa al destriero fingendosi cavalieri all’inseguimento della bella da salvare. Padroni lo ha dipinto e gli hanno sempre chiesto da dove venisse l’idea di inserire un cavallo in un ambiente chiuso come un appartamento. “C’è davvero” ribadiva lui, senza essere creduto. Nel 2016 è stato portato in cantina perché ormai pieno di acari che davano l’allergia un po’ a tutti.
L’opera d’arte situata in casa di mia madre che mi affascina di più è però la porta di Nagasawa, artista giapponese vissuto tutta la vita in Italia, morto da pochi anni.

Anna Paparatti e la figlia Fabiana Sargentini di fronte alla porta dell’artista giapponese Nagasawa
È una porta ad arco, intagliata da due tronchi di legno cirmolo, con braccia-rami che si intrecciano: chiusa ma aperta, ferma ma in movimento. Non ci si passa attraverso ma consente di posare lo sguardo da una stanza all’altra. Nagasawa è stato un grande artista e un grande amico della mia famiglia. La porta, esposta in galleria e poi comprata da mio padre, sta a casa nostra da quarant’anni.
Amo e sono molto affezionata a una cuffia gioiello tibetana composta da coralli e turchesi, probabilmente di proprietà di qualche re. Quella mattacchiona di mia madre l’ha fatta indossare più volte a mio figlio Flaviano quando aveva quattro-cinque anni. Mia madre tiene tantissimo ai suoi gioielli ma il nipote vale ancora di più.
Il rapporto con la notorietà è un sotto-tema che serpeggia lungo tutto il film. Fondato nel 1957 da Fabio Sargentini, tuo padre, L’Attico acquisì in pochissimi anni una fama internazionale. Nelle sue sale si alternavano nomi noti del panorama artistico dell’epoca: Capogrossi, Leoncillo, Fontana, Mafai, Fautrier, Brauner, Magritte, Matta, Permeke, Canogar. Anna, in qualità di organizzatrice e desiner, preparava con cura il materiale iconografico: locandine, manifesti, cartoline, che rispecchiano tuttora il gusto estetico e dirompente di un’intera generazione di artisti.
Sembra tuttavia che l’Attico non abbia però mai dedicato sufficiente spazio all’arte di Anna. Credi che questo sia vero? E se sì, perché?
A mia madre la notorietà non interessava. O forse, anche, non era una cosa per lei, di cui non ha mai posseduto le chiavi di lettura, in un certo senso. Lei è sempre stata un’artista, è sempre stata una donna libera, coraggiosa, diversa dalla maggior parte della popolazione femminile sua coetanea. Ha collaborato con mio padre che era un gallerista affermato e riconosciuto per via delle felici scelte che ha compiuto. Ha esposto tra i primi Pascali e Kounellis che ora si trovano nei maggiori musei internazionali. Ma anche per le sue idee rivoluzionarie d’avanguardia artistica: lo spazio del garage aperto nel dicembre del 1968 – seconda sede de L’Attico – fu precursore dei loft newyorchesi. Intuizioni geniali. Mio padre e mia madre insieme sono stati una fucina, un sodalizio di idee scambiate di notte per ore e ore.
Un altro tema forte, è in qualche modo l’arte come collettivo. Nel tuo film è molto significativo il passaggio in cui tua madre racconta di come partecipasse con vivo interesse agli incontri degli artisti nella Roma di Piazza del Popolo, prima ancora di entrare nell’Attico. Da principio la sua avvenenza fisica esteriore, invece che rappresentare un valore aggiunto, le appariva quasi come un “limite”, in quanto il suo talento veniva sempre dopo la sua femminilità. D’altro canto però negli anni ’70 le connessioni con gli ideali, le ideologie e anche con i dubbi e le contraddizioni di quel vivace contesto sociale e culturale, spingevano gli artisti ad unirsi, a creare collettivi, fare viaggi insieme per esplorare culture diverse.
Tu che sei nata e cresciuta in quel contesto e che oggi ti occupi di arte a tua volta (anche se parliamo di cinema) potresti dire lo stesso degli artisti di oggi? Cosa c’è di diverso? E perché? Senti di avere una responsabilità come artista?
Il cinema è un’arte collettiva, anche per questo mi piace! Ogni collaboratore porta il suo contributo creativo e il risultato finale, il film, è la somma di più menti. D’altro canto, da sempre, mi manca lo scambio che ci è stato nei tanti movimenti artistici del Novecento. Penso al Futurismo in pittura a Parigi nei primi anni del secolo scorso o alla Nouvelle Vague francese, ai Cahiers du cinéma, Truffaut e Godard che, dai due lati opposti di un tavolo, dialogavano sul significato del fare cinema. La nostra generazione è più insicura: ogni regista tiene per sé le proprie idee. Manca la collaborazione, manca quel confronto da cui a mio avviso nascerebbero proposte stimolanti. Manca la voglia di sperimentare insieme nuove strade. L’ambizione è una zavorra che àncora a riva, il mare aperto appare solo pericoloso, il rischio troppo alto. Peccato.
La parola artista mi è sempre suonata male applicata alla regia cinematografica ma forse è una cosa tutta mia: da quando ero piccola ai miei occhi gli artisti erano dei pazzi! Faccio film fingendo di essere normale, lasciandomi andare solo nella messa in scena.
La pittura di tua madre, geometrica, evocativa, giocosa, talvolta naïf, è come se rifuggisse l’autorappresentazione. Il raffinato senso del colore, per sua stessa ammissione, rappresenta forse il vero punto di forza, l’originalità della sua impronta. I mandala variopinti consentono ad Anna di entrare in contatto con il proprio sé e di esprimere sentimenti, emozioni e pensieri difficili da tradurre in parole o per i quali non si ha ancora piena coscienza: strumenti creativi, ma anche e soprattutto di benessere. Nel tuo caso c’è una chiara e costante ricerca del cinema come auto-narrazione, autorappresentazione.

10 aprile 2024. Anna Paparatti in prima fila durante la proiezione dell’anteprima del Farnese.
Puoi spiegarci che valore ha, per te, il documentario? Vi siete mai confrontate sui vostri diversi mondi espressivi? Ti sei mai chiesta se tra i mandala di tua madre e i tuoi primi piani ci sia una continuità espressiva, estetica?
Il documentario è la mia forma espressiva preferita perché cerco, da qualche parte, la verità. Non ho mai temuto di espormi troppo mettendomi in campo in prima persona perché il pudore non mi appartiene: non è un caso che nella storia di mia madre, apparentemente poco comune, tante persone diverse trovino dei punti in comune. Ne La Pitturessa, oltre che la storia di una pittrice e di una donna, si racconta la relazione tra madre e figlia, lei e me, con le nostre scaramucce, le risate, la complicità, la cura reciproca, i limiti che siamo state l’una per l’altra. Lei dipinge, io filmo, lei medita attraverso la pittura, io supero la paura di crescere, o di invecchiare? osservando lei che ci è già passata.
Attraverso questa ennesima esplorazione reciproca abbiamo trovato un nuovo modo di stare insieme e ci ha fatto bene. Evviva La Pitturessa!
® foto inedite per gentile concessione della regista
‘La Pitturessa’: su un dialogo madre-figlia – Taxidrivers.it