La guerra dei Roses (The War of the Roses) è un film del 1989 diretto da Danny DeVito, basato sul romanzo The War of the Roses di Warren Adler.
La guerra dei Roses: la trama
Dopo diciotto anni di matrimonio, coronati dalla presenza di due figli, Barbara Rose si accorge che qualcosa non funziona nella sua vita: il marito, Oliver, che pure le ha assicurato un’esistenza di alto livello, non l’ha mai gratificata. Il mondo perfetto che Oliver ha saputo allestire per loro in tutti quegli anni le pare privo di senso e quando la coppia va in crisi gli effetti sono devastanti.
Nel 1989 La guerra dei Roses fu un buon successo a livello internazionale, forse anche perché riproponeva il terzetto Michael Douglas/Kathleen Turner/Danny DeVito che già aveva brillato nell’avventuroso All’inseguimento della pietra verde e nel seguito Il gioiello del Nilo. Tuttavia, rispetto ai film precedenti questo La guerra dei Roses è una commedia nera molto più cattiva che DeVito dirige con buona verve, descrivendoci un matrimonio che col passare degli anni si tramuta in un inferno, dove la posta in gioco è il possesso di una casa lussuosa, da cui né Oliver né Barbara Rose vogliono staccarsi nonostante la fine del loro legame.

La recensione
I personaggi non scadono quasi mai nella caricatura nonostante il prevalere di umori acidi e sulfurei nella sceneggiatura di Michael Leeson, che non lesina situazioni estreme soprattutto nella seconda parte. Il gioco è forse un po’ tirato per le lunghe su quasi due ore di proiezione, in qualche momento può sembrare un po’ gratuito, ma il ritratto di una coppia in crisi che sfoga nell’odio reciproco la propria frustrazione ha una sua aderenza alla realtà che cancella il sospetto di futilità. DeVito come regista se la cava con buona competenza, sfoggia inquadrature con riprese dal basso piuttosto azzardate, dirige gli attori con sicurezza: se il film si guarda con interesse molto del merito è di Michael Douglas e Kathleen Turner, allora ancora nel fiore degli anni e delle rispettive carriere, convincenti anche nella voluta esasperazione delle rispettive caratterizzazioni.
Finale da non rivelare, piuttosto coraggioso nel suo anticonformismo. La misoginia è contenuta in limiti accettabili, alcune trovate visive sono degne di nota: certo non stiamo parlando di un classico, però è una black comedy il cui titolo in alcune zone è addirittura passato in proverbio e che si rivede senza annoiarsi.