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Ash vs Evil Dead – Riflessioni sulla 2°Stagione

Se la prima stagione non aveva peli sulla lingua, la seconda è una spirale pazza di black humor, trash ed horror. Le parentesi no-sense sono numerose e tutte spietatamente di cattivo gusto. Si sublimizza una lungimirante estetica del brutto, che se da un lato è il presupposto indispensabile per il successo della serie, dall’altro ne è la condanna sul piano dell’impatto mediatico

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La seconda stagione di Ash vs Evil Dead ha salutato il 2016 nel migliore dei modi, regalandoci 10 episodi entusiasmanti e all’altezza delle aspettative. Nel momento in cui altri titoli più blasonati rubano la scena mediatica alle avventura di Ash Williams&Co. è necessario riportare alcune riflessioni interessanti sulla serie. Una sorta di bilancio stagionale sul progetto.

Innanzitutto si registra il ritorno in pompa magna di Sam Raimi, autore della trilogia cinematografica originale e pater familias della serie. Ogni singolo elemento è pregno del suo stile, eccessivo in tutti i sensi. Demenziale, violento, sanguinoso, scorretto, anti-eroico e oltremodo non convenzionale. Il sesso, la droga e il rock’n roll hanno animato tutti gli episodi fin dalla prima stagione e adesso è come se tutto l’universo creato negli anni da Raimi si animasse e celebrasse la propria grandezza. Una operazione nostalgia, che nel suo impianto citazionistico, autoreferenziale e post-moderno, si stanzia come un ritorno delle vecchie glorie.

“Ritorno” è la parola chiave di questa seconda stagione di Ash vs Evil Dead ed è importante analizzarne le dinamiche. A tal proposito, si consolida un processo di recupero del passato, attraverso i volti, i personaggi e le situazioni ricorrenti del cinema di Raimi. Lo testimoniano la presenza di attori feticci, come Ted Raimi (il Corilo di Xena – La principessa guerriera) e Joel Tobeck (Strife in Hercules – Legendary Journeys) e la volontà narrativa di stabilire un legame con l’immaginario cinematografico precedente, sia sul piano visivo (le immagini dei capitoli della trilogia originale, che ritornano appunto), sia sul piano strutturale (il recupero di situazioni passate irrisolte, che diventano fondamentali per permettere il proseguo della storia). Il risultato è che Ash vs Evil Dead conquista gli amanti del brand, che accolgono anche questa stagione come una continuazione dignitosa e in alcuni casi anche esplicativa della storia pregressa.

Il ritorno è anche una (ri)scoperta del passato ed è ottima da questo punto di vista la rivelazione di un background del protagonista, funzionale alla storia e ricco di conflittualità interessanti. Ash vs Evil Dead torna alle origini della storia, con delle modalità di recupero tipiche dei cult horror: pensiamo alle operazioni eseguite per la saga di Nightmare, Halloween o Venerdì 13, in cui il proseguire della storia è sempre vincolato ad una scoperta del passato e al ritorno in luoghi simbolo come Elk Grove nel caso specifico. Niente però è preso sul serio e tutto viene filtrato attraverso lo sguardo grottesco, demenziale e splatter dell’autore. Si arriva allora ad uno degli espedienti più interessanti di questa seconda stagione: la continua frustrazione dell’archetipo classico. L’amore idilliaco, la riconciliazione pacifica padre-figlio, la vittoria pulita e redentrice del bene sul male sono degli esempi di soluzioni narrative comunemente riconoscibili, che vengono frustrate in modo grottesco ed irriverente dell’autore.

Se la prima stagione non aveva peli sulla lingua, la seconda è una spirale pazza di black humor, trash ed horror. Le parentesi no-sense sono numerose e tutte spietatamente di cattivo gusto. Si sublimizza una lungimirante estetica del brutto, che se da un lato è il presupposto indispensabile per il successo della serie, dall’altro ne è la condanna sul piano dell’impatto mediatico. Ash vs Evil Dead è un progetto particolare, con un linguaggio e delle strategie comunicative che si adattano con difficoltà ad un pubblico “generalista”. Per questo motivo mira ad un orizzonte spettatoriale specifico e circoscritto, che complica sensibilmente il processo di crescita dell’attenzione mediatica. Questo spiegherebbe perché la serie ha avuto una risonanza minore rispetto ad altre serie cult contemporanee e sia rimasta fuori dagli interessi delle grandi emittenti televisive americane. Qui entra in gioco la Starz Entertainement e la sua politica produttiva audace. Infatti la buona riuscita del progetto è stata in gran parte determinata dalla libertà creativa in cui si è potuto muovere Sam Raimi, merito della strategia lavorativa adottata dalla Starz. Scommettere, rischiare e diversificarsi sono le azioni chiavi di questa emittente televisiva minore, che è stata in grado di riesumare un capolavoro cult di trent’anni fa e costruirvi due stagioni all’altezza del modello originario. Non rimane che attendere la prossima stagione dunque, constando con soddisfazione un passaggio di consegne di successo fra cinema e serie.

Emanuele Paragallo

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