Dunque, questa quarta visione della XXI edizione del Med Film Festival, l’iraniano Impermanent del giovane regista Amir Azizi, al suo secondo lungometraggio dopo l’esordio con I Hate the Dawn, ci ha lasciati, ad essere sinceri, abbastanza perplessi. Il tentativo di mescolare l’analisi dei rapporti all’interno di un nucleo familiare, composto tra l’altro da solo donne (madre e tre figlie) – in cui la figura maschile è presente in forma spettrale, nella misura in cui non smette di ‘ritornare’ attraverso un continuo processo di evocazione – con la forma del giallo, in riferimento ad un macchinoso, fumoso e davvero poco avvincente mistero del ‘proiettile scomparso’ di una pistola trovata per caso da una delle figlie, è davvero poco riuscito, non appassiona mai veramente e si percepisce come una forzatura della sceneggiatura che, a tutti i costi, vuol far convivere, senza riuscirci, due anime poco conciliabili. Il forte elemento autobiografico, emerso poi chiaramente nel dibattito con il regista successivo alla proiezione del film, rende l’opera criptica, pretenziosa, rivelando un narcisismo di fondo che tradisce, diciamolo pure, un certo dilettantismo.
Ad infastidire, oltre il contenuto improbabile, è soprattutto la forma: l’autore abusa di alcuni artifici, proprio per far sentire allo spettatore, come si diceva una volta nei testi che si occupavano della grammatica cinematografica, la presenza della macchina da presa, che si produce in gratuite panoramiche a 360 gradi in un interno, oppure, anche quando gli attori sono usciti dal profilmico, indugia qualche secondo su un’inquadratura spoglia, volendo segnalare a tutti i costi una sottesa autorialità, e generando un risultato involontariamente parodistico. Sembra di assistere a un sottoprodotto anacronistico di un film di Antonioni, o alla versione macchiettistica di un noir di Polanski, come se Azizi avesse rigurgitato, in maniera davvero scomposta e inopportuna, tutto il cinema di cui si è nutrito, senza una corretta metabolizzazione. Anche la scrittura è irritante, considerando che quasi tutta la prima parte del film è composta da sporadici dialoghi che, assai faticosamente (sempre per un compiacimento del regista), ci portano a conoscenza della situazione rappresentata, e lo spettatore rimane appeso per più di mezz’ora, sperando di, prima o poi, capirci qualcosa. Ovvio che anche questa modalità della narrazione non è un errore in sé, solo che bisogna, ammettiamolo, posseder ben altro spessore per padroneggiarla.
Non vogliamo con questa nostra critica demolire il giovane autore iraniano (operazione che chi scrive detesta fare), che tra l’altro possiede pure un certo grado di talento, solo gli consiglieremmo, per il futuro, di non strafare e trovare una propria e più personale, e magari più umile, tonalità espressiva attraverso cui mettere in scena i suoi vissuti, sfrondandoli del compiacimento autobiografico e donandogli un soffio universalizzante che permetta un processo di immedesimazione da parte dello spettatore (poi se si vuole superare il vincolo della rappresentazione, della tirannia del ‘soggetto’, ben vengano opere di rottura, però è bene sapere che solo pochissimi riescono a produrre un tale eccellente risultato).
Luca Biscontini