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Happy family

«A poco più di un anno di distanza dal cupo “Come Dio comanda”, Gabriele Salvatores torna in sala confermandosi ancora una volta l’eclettico sperimentatore di sempre».

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1Gabriele_Salvatores

A poco più di un anno di distanza dal cupo Come Dio comanda, Gabriele Salvatores torna in sala confermandosi ancora una volta l’eclettico sperimentatore di sempre. Dopo aver manifestato a più riprese l’affinità elettiva con Niccolò Ammaniti, il regista scova un altro giovane scrittore italiano, Alessandro Genovesi, autore di Happy Family, romanzo che ha già ispirato l’omonimo spettacolo teatrale da anni in giro per l’Italia. Salvatores trova così l’occasione per lanciarsi di petto nella commedia, dopo le incursioni delle ultime produzioni nel genere drammatico, con venature più o meno noir. È invece di piena luce e pieni colori, anche piuttosto saturi, che vive questo Happy Family, con un Fabio De Luigi improvvisato sceneggiatore alle prese con una storia scritta da egli stesso e di cui non riesce a liberarsi, rimanendone impigliato in prima persona. Si troverà infatti fisicamente coinvolto nel confronto tra le due famiglie molto diverse che ha messo al centro della sua storia, costrette ad una cena comune poiché i rispettivi figli appena adolescenti hanno deciso di convolare (prematuramente) a nozze.

Il film, dunque, iscrive nel registro della commedia tematiche pirandelliane e suggestioni, almeno sulla carta, metacinematografiche. E, in effetti, la pellicola elargisce un numero più che consistente di risate, merito soprattutto di un cast in parte azzeccato e ben diretto (la coppia AbatantuonoBentivoglio su tutti) e di una regia e un montaggio in grado di guidarne il passo. Molto più difficili da digerire e giustificare parecchie ingenuità alla base del disegno drammaturgico e registico che vedono avvicendarsi insistiti sguardi e dichiarazioni in macchina dei vari personaggi a mo’ di diario filmato, che spesso si trasformano in degli “a parte” forse di derivazione teatrale che mal funzionano in un film che decide, fra l’altro, di inserire la ribellione dei “personaggi in cerca d’autore” dentro lo schermo del pc del loro distratto e incostante Pigmalione. Non sono tanto le scelte in sé per sé a funzionare poco, quanto il fatto che diventino tasselli di un congegno drammaturgico piuttosto macchinoso, i cui incastri sembrano di volta in volta fare fatica a incontrarsi senza emettere un certo stridore e che, invece di mettere l’accento sulla presunta dimensione metacinematografica e i diversi livelli della finzione (cinematografica), finiscono per scoprire unicamente proprio le forzature necessarie per produrli. Così, come, a conti fatti il monologo iniziale di De Luigi sullo stato di paura che attanaglia le vite del mondo intero fa il paio con qualche dialogo fin troppo spiegato.

In ogni caso, va riconosciuto a Salvatores, così come ad Italo Petriccione, direttore della fotografia e a Rita Rabassini, scenografa, il merito di aver curato una messa in scena suggestiva, basata spesso su una dominante di colore all’interno delle scene volte a regalare un effetto antinaturalistico alla città di Milano, che non a caso diventa davvero protagonista solo in una sequenza girata in bianco e nero. Quest’attenzione affatto banale applicata ad un genere come quello della commedia, che nel nostro Belpaese fa davvero fatica ad innovarsi e che trova qui un esempio, seppur non privo di difetti, ma anche originale per certi versi, conferma almeno la tendenza di Salvatores a misurarsi instancabilmente e coraggiosamente con progetti sempre diversi.

Viviana Eramo

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