L’innocente di Luchino Visconti, con Giancarlo Giannini e Laura Antonelli
Tratto dal romanzo omonimo di Gabriele d'Annunzio, L'innocente è l'ultimo film diretto da Luchino Visconti. Come in Morte a Venezia, Ludwig e Gruppo di famiglia in un interno, il regista mette in scena l'incapacità di un aristocratico nel venire a patti con la modernità. Il tratto autobiografico è evidente
L’innocente è un film del 1976 diretto da Luchino Visconti. Tratto dal romanzo omonimo di Gabriele d’Annunzio, è l’ultimo film diretto dal regista. Fu presentato fuori concorso al Festival di Cannes 1976, due mesi dopo la morte di Visconti. Sceneggiato da Suso CecchiD’Amico,Enrico Medioli e Luchino Visconti, con la fotografia di Pasqualino De Santis, il montaggio di Ruggero Mastroianni, i costumi di Piero Tosi, le scenografie di Mario Garbuglia e le musiche di Franco Mannino, L’innocente è interpretato da Giancarlo Giannini, Laura Antonelli, Jennifer O’Neill, Rina Morelli, Massimo Girotti.
Trama Roma, fine del XIX secolo: Tullio e Giuliana Hermil sono una coppia dell’alta borghesia romana, insieme da anni, ma senza amore. Lui è un dongiovanni impenitente, ma nonostante questo lei gli è fedele. A un certo punto, però, nella vita della donna compare l’affascinante scrittore Filippo d’Arborio: Giuliana gli si concede e concepisce un bambino. La notte di Natale, quando tutta la famiglia è in chiesa, Tullio espone al gelo il “figlio della colpa”.
Luchino Visconti realizzò L’innocente in carrozzella, molto sofferente, e morì nella primavera del 1976, colto da una forma grave di trombosi pochi giorni dopo aver visionato, insieme ai suoi più stretti collaboratori, il film nella prima forma del montaggio, della quale rimase insoddisfatto. Il film fu presentato al pubblico in quella veste, a parte alcune modifiche apportate dalla co-sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico sulla base di indicazioni del regista durante una discussione di lavoro.
Pur nel sostanziale rispetto dei tratti principali della personalità del protagonista – il superomismo, l’ateismo fiero, lo spirito raziocinante, anticonformista – Visconti introdusse nella sceneggiatura significative differenze rispetto al romanzo di D’Annunzio, “…sino ad un ribaltamento del testo di partenza e del suo assunto.” Tale ribaltamento è già preannunciato nel maggiore distacco della narrazione: non è Tullio, il protagonista, a raccontare in prima persona, come, invece, avviene nel romanzo.
Diversi sono i personaggi femminili nel film. Per la figura della succube e rinunciataria Giuliana, D’Annunzio si era ispirato anche a La mite, che, nel racconto di Dostoevskij, si gettava, sconfitta, dalla finestra – un gesto ripetuto nella vita reale anche dalla moglie dello stesso poeta, nel periodo in cui questi intratteneva una relazione con la contessa Gravina Cruyllas di Rimacca. Nel film, la moglie di Tullio Hermil reagisce al tradimento del marito e non rinuncia a costruirsi una propria esistenza affettiva autonoma, legandosi al poeta D’Arborio. Rivendica, poi, il controllo sul proprio corpo, rifiutandosi di abortire, ed infine lascia il marito.
Parallelamente, la contessa Raffo, la cui presenza nel romanzo era talmente invisibile da meritarsi l’appellativo di “l’Assente”, è proposta nel film come donna autonoma e indipendente, acquistando nel finale il ruolo di giudice del comportamento di Tullio e inducendolo, col suo sprezzante rifiuto, all’estremo passo. In relazione alla questione dell’emancipazione femminile, alcuni temi del dibattito sull’aborto, all’epoca del film particolarmente acceso, trovano un’eco nel confronto tra Tullio e Giuliana, anche se a parti invertite: è Tullio a volere l’aborto, ed è lui a giudicare “immorale e delittuoso” il precetto di anteporre la vita del nascituro a quella della madre.
Nel romanzo, Tullio sopravvive al suo crimine. Nel film “…è lui stesso a giustiziarsi attraverso il suicidio: un gesto che… appare come una vera e propria messa a morte operata dall’autore“. L’incapacità di un aristocratico, com’era anche Visconti, nel venire a patti con la modernità, nell’adeguarsi ad essa, ne causa la fine; come avviene per i protagonisti di tutti i film immediatamente precedenti del regista; da Gustav von Aschenbach (Morte a Venezia) sino a Ludwig di Baviera e il “Professore” di Gruppo di famiglia in un interno.
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