Presentato alla 67esima edizione del Festival di Cannes, Sils Maria è una pellicola che si colloca, senza alcun timore o sterile riverenza, in quella categoria di film/riflessione sul cinema (che in questo caso si mescola al teatro), sulla complessità che caratterizza, investe, fagocita chi ha consacrato la propria vita alla trasposizione visiva di qualsiasi storia, sul romanticismo insito nella scelta di rappresentare le vite altrui. Il film nasce da un’idea di Juliette Binoche – protagonista assoluta – sviluppata e sceneggiata dal regista francese Olivier Assayas. L’immensa Binoche interpreta Maria Enders, un’attrice di successo, una donna matura, che ha raggiunto il successo interpretando il ruolo di Sigrid nella pièce teatrale intitolata Maloja Snake, circa una ventina di anni prima. In quella pièce, Sigrid era una ragazza affascinante che spinge al suicidio il suo capo, Helena, triste epilogo del rapporto morboso e malato fra le due donne. Il regista Klaus Diesterweg (Lars Eidinger) offre a Maria di recitare nuovamente in quella storia, questa volta nei panni di Helena. Il ruolo di Sigrid verrà interpretato da Jo-Ann Ellis (Chloe Grace Moretz), giovane attrice talentuosa e sregolata, dal forte carisma, spesso alla ribalta delle cronache a causa di gossip e scandali. Maria accetta, seppur riluttante, il ruolo che le viene offerto, anche su insistenza della sua giovane assistente Valentine (Kristen Stewart) che l’accompagnerà a Sils Maria, affascinante località della Svizzera, per prepararsi al meglio per il ruolo. Nel dorato isolamento svizzero, Maria avrà modo di confrontarsi con il personaggio di Helena, con il suo sentirsi ancora profondamente legata al suo opposto, Sigrid, e con la sua assistente Valentine.
Il lavoro di Assayas è meticoloso nella messa in scena, nell’indugiare sulla sobria bellezza delle sue attrici e nel porre continuamente sotto i riflettori i sottili equilibri che si instaurano fra i vari personaggi, con l’unico punto fermo e imprescindibile rappresentato da Maria. Non si hanno cadute di stile, o di tono, nel vorticoso e instancabile confrontarsi fra Maria e il regista Klaus, fra Maria e l’assistente Valentine, fra Maria e la “bruciante” Jo-Ann. Nell’elegante susseguirsi di dicotomie umane, Assayas riesce a ritagliarsi un suo personale tributo al cinema: a Sunset Boulevard, in primis e con i dovuti distinguo, dal momento che i tormenti di Maria sembrano ricalcare quelli di Norma Desmond (Gloria Swanson) nel capolavoro di Wilder, seppur in maniera più lucida e meno schizofrenica. Una donna che ha difficoltà ad accettare il suo passaggio alla maturità, vista quasi in un’accezione negativa, che la porta a non distaccarsi, cocciutamente, dal personaggio di Sigrid.
Le lunghe passeggiate fra le montagne, in cui Maria e Valentine attraversano una natura inquietante, che intimorisce nella sua magnificenza, richiamano alla mente le visioni di Bergman in Persona, o L’ora del lupo. E c’è ancora Persona fra le influenze di Assayas che confluiscono in Sils Maria, soprattutto negli scambi di impressioni, di riflessioni e di debolezze fra l’attrice e la sua giovane assistente.
I vari livelli narrativi sembrano intersecarsi freneticamente, ma ciò non accade mai in concreto, e dopo un iniziale smarrimento (più desiderato che effettivo), capiamo perfettamente quando le parole pronunciate appartengono a Maria, a Sigrid, a Helena, a Valentine o a Jo-Ann.
Il lavoro del regista francese è impeccabile e la classe che ne scaturisce è indiscutibile, grazie a una fiamma costante, sempre domata, e mai fuori controllo, che brucia per tutto il film. La recitazione è un’altra perla di Sils Maria, ed è curioso notare come il confronto fra la Binoche e la Stewart sia impietoso per quest’ultima. Ma se in un primo momento si tende a giustificare questo dislivello come un semplice divario tra una fuoriclasse e una discreta attrice, questa giustificazione viene del tutto spazzata via dall’ingresso in scena di Chloe Grace Moretz. Il divario sussiste, ovvio, ma la Moretz non è la Stewart e il confronto diventa decisamente più avvincente. Un film ottimo, che in più momenti riesce a turbare grazie a ciò che non viene detto, a ciò che è nascosto allo spettatore, e che forse condiziona le sorti dei protagonisti intrappolati in un continuo gioco di rifrazioni.
Riccardo Cammalleri