Luc Merenda, con il suo fisico prestante e quella faccia da impunito è stato uno degli attori più attivi nel prolifico e popolare cinema italiano degli anni ’70. Film polizieschi, erotici, d’azione, commedie, con registi di sicuro mestiere come Fernando di Leo, Sergio Martino o Stelvio Massi, oggi totalmente rivalutati e di nuovo in voga. Luc Merenda si è aperto ai microfoni di Taxidrivers, raccontandoci la sua vita, il suo cinema e quello che era il suo sogno: essere un attore come Gian Maria Volonté.
Qual era l’atmosfera che si respirava nel cinema e nell’Italia degli anni ’70?
Era un’epoca abbastanza particolare. Era tutto molto forte, tutto più bello, viscerale, anche nel male, che certo non mancava. A me capitava soprattutto di fare il poliziotto e quei film insistevano su dei punti particolari, cose che non si sarebbero dovute dire, il marcio che non andava. In generale, però, era un periodo estremamente stimolante, in tutti i sensi, anche cinematograficamente. Si producevano tantissimi film, magari non tutti apprezzabili, ma davano il senso di un mondo in grande movimento. Di certo si lavorava moltissimo in quegli anni.
Quel cinema di cui sei stato protagonista incassava molto, ma era snobbato dal mondo culturale. Oggi, invece, è stato completamente rivalutato. Che cosa la critica del tempo non aveva capito?
Una trasmissione come Stracult ci ha parecchio aiutati. Sono tornato in Italia, per amore, cinque anni fa e sono rimasto stupefatto che per strada mi fermava più gente rispetto a quegli anni ’70, soprattutto giovani. All’epoca, queste pellicole erano considerate semplici film d’azione e i critici, cultori di un certo tipo di cinema intellettuale, ne erano effettivamente un po’ infastiditi. Giravamo veloce, però ci mettevamo l’anima. Le troupe erano straordinarie, con stuntman incredibili. Per non parlare di certi attori con cui ho lavorato: Lee J. Cobb, Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno e poi attrici di una bellezza sconvolgente. Però, è vero, ci snobbavano. Io sono comunque fiero di quello che ho fatto, senza nessun compromesso, parola che conosco. Preferisco sempre dirmi che si poteva fare di più, piuttosto che dirmi d’aver fatto troppo.

Luc Merenda in Il poliziotto è marcio
Secondo una nuova prospettiva critica, quel cinema cosiddetto di serie B raccontava l’Italia degli anni ’70, piena di violenza criminale e politica, persino meglio, e certamente più direttamente, del cinema d’autore. Qual è il tuo punto di vista?
Ah sì, gli intellettuali sono stupendi, ma spesso vivono solo nel loro mondo. Poi ci sono intellettuali e intellettuali: prendi uno come Gian Maria Volonté, un attore meraviglioso che faceva film straordinari. Io davvero avrei voluto essere come lui, girare pellicole su situazioni controverse come Il caso Mattei. Cioè mi sarebbe piaciuto fare film come questi, che mostrassero l’orrore e l’ignominia del potere, con la volontà di cambiare il mondo, migliorarlo. Non è che facciamo cinema per essere ammirati per quanto siamo belli, ma per poter fare un certo tipo di film che vogliamo, in cui ci riconosciamo. Questa è, però, una grande difficoltà, con il mercato di mezzo.
Tra i registi con cui hai più collaborato in quegli anni, due nomi di punta sono Sergio Martino e, soprattutto, Fernando di Leo. Che ricordo hai di loro e dei vostri film insieme?
Fernando di Leo era, prima di tutto, un bravissimo scrittore, anche di poesie e romanzi, non a caso nasce come sceneggiatore. Sul suo set era come da Luchino Visconti: non c’era mai rumore, si sentivano volare le mosche, eppure faceva dei film parecchio adrenalinici! Mi ricordo di una storia bellissima su Fernando di Leo: c’era stato un disaccordo con il produttore, problemi di soldi che non mi erano stati dati. Lui è arrivato un giorno a casa mia con una borsa e mi ha portato un autentico vaso etrusco a compensazione, da persona generosa e appassionata d’arte qual era. Ho apprezzato il gesto, ma non l’ho accettato, anche perché allora non avrei saputo che farmene di un’anticaglia etrusca. Però ti rendi conto della sua gentilezza. Il poliziotto è marcio è stato un film fondamentale per me. Con lui ho fatto anche altri generi, una pellicola brillante come Gli amici di Nick Hezard e un’altra d’azione come La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori: se uno mi ammazzasse mia figlia, gli farei 17 volte quello che ho fatto nel film, anche peggio, mi sembra normale.

E di Sergio Martino che ricordo hai?
Sergio Martino l’ho incontrato per la prima volta a Cinecittà. Non conoscevo quasi niente del cinema, a parte i grandi film internazionali, ma non sapevo assolutamente nulla del cinema italiano. Avevo cominciato direttamente con il grande cinema: Rapporto sulle esperienze sessuali di tre ragazze bene che era stato in concorso a Cannes nel 1970, Inchiesta su un delitto della polizia (1971) di Marcel Carné, Le 24 Ore di Le Mans (1971) con Steve McQueen, Sole rosso (1971) di Terence Young con, senti un po’ il cast: Charles Bronson, Toshirō Mifune, Alain Delon, Ursula Andress e Capucine. A un certo punto mi sono trasferito in Italia e stavo facendo un western, Così sia, quando incontro la famiglia Martino: Luciano il produttore e Sergio il regista, un duo straordinario. Abbiamo girato quattro film insieme: I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973), La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide (1975), La città gioca d’azzardo (1975). Abbiamo fatto un bel po’ di soldi, poi, però, mi sono scocciato di quei film, per questo Sergio Martino mi diceva che ero pazzo, ma io ho sempre fatto quello che sentivo.
Gli anni ’80 hanno visto declinare quel genere di cinema di cui eri stato protagonista. Cosa hai fatto dopo?
Ho smesso di fare cinema in Italia negli anni ‘80. Sono tornato in Francia e, nel primo film che mi propongono, una serie televisiva, avrei dovuto interpretare un commissario. Un altro commissario? Basta, avevo già fatto tanta polizia in Italia! Però il produttore era molto simpatico e la protagonista femminile carina. Mi presento controvoglia al provino (dopo 40 film!), facendo di tutto per non essere preso, ma vengo scelto e così mi sono fatto fregare di nuovo. Questa miniserie di sei film ha avuto molto successo e me ne hanno offerto un’altra. Purtroppo, quando sei nell’ambito della televisione, diventa una specie di catena: perciò mi propongono un serial di ventisei puntate! Ho accettato, ma pensavo che non sarei sopravvissuto. Mi sono trovato rinchiuso dentro la scatola di questa cazzo di televisione, il cinema non veniva più da me, ho perso la mia occasione di rientrare nel cinema francese che contava. Poi ho anche girato un film, Tinikling ou ‘La madonne et le dragon’, con un regista americano straordinario come Samuel Fuller, aveva fatto pure lo sbarco in Normandia. Nel cast c’era Jennifer Beals. Lì ho scoperto che le gambe che avevo visto ballare in Flashdance non erano le sue, ma di un’attrice e danzatrice francese, Marine Jahan. Infatti, quando l’ho vista, le ho detto: «Peccato che hai cambiato gambe…». Però era molto simpatica, si era appena sposata, quindi tanto felice. Per fartela breve, mi sono detto: vabbè, questi stronzi non mi fanno entrare nel grande cinema? Ciao ciao e sono diventato antiquario. Ho viaggiato ovunque: in Cina, Giappone, Sud-Est Asiatico, Oceania e Africa per un negozio che avevo aperto a Parigi. Mi sono divertito moltissimo. Ho imparato a negoziare con i cinesi che ti fanno vedere una riproduzione di qualunque cosa e tentano di vendertela a prezzi folli. Io non parlavo una parola della loro lingua, ma arrivavo a pagare un decimo della loro richiesta iniziale. Ho fatto esposizioni importanti in Francia con antiquari di tutti i tipi. Nello stand ricreavo il set con le luci e le scenografie. Cinematograficamente, ero stato triste di aver lasciato l’Italia, tristissimo di essere tornato in Francia, ma poi, finalmente, felicissimo della mia nuova vita. Nel frattempo, ho fatto una figlia e ho pensato che era la cosa più importante, che non c’era carriera più bella di un padre che aiuta la propria bimba a crescere.

Alla XXIVa edizione del Festival del Cinema di Porretta Terme presenti il documentario Pretendo l’inferno, di Eugenio Ercolani, di cui sei protagonista. Com’è nato il progetto e che affetto ti ha fatto vederlo realizzato?
Avevo messo il cinema da parte, quando sono stato chiamato prima da Marco Giusti per Stracult e poi da Steve Della Casa per Hollywood Party. Lì ho capito che non ero morto per l’Italia, cioè io mi ero ammazzato come attore, però loro non lo sapevano. A un certo punto, Steve Della Casa mi ha detto che avrebbe voluto fare un documentario su quel cinema degli anni ‘70 guidato dal mio sguardo. La cosa è partita e il titolo l’ho scelto io: Pretendo l’inferno, perché vedo questi culi benedetti che prendono tutti i posti in paradiso, ma sono noiosi, pieni di manie, snob da tutta la vita e non hanno mai pensato a nient’altro che il loro benessere. Allora, io ho detto pretendo l’inferno: con alcol, cibo e donne straordinarie. L’inferno me lo immagino così e anche il film non è male.
Che cosa pensi del cinema italiano di oggi, rispetto a quegli anni ’70 di cui sei stato protagonista?
Tutto il cinema è in sofferenza e in particolare quello italiano. All’epoca, il cinema italiano rappresentava il cinema italiano e non la televisione. Allora era un testa a testa, ora il cinema subisce la televisione. Con le piattaforme, poi, non ne parliamo, perché se le persone possono vedere centinaia di film come vogliono con questo canale, ovviamente non vanno più in sala e tutto si riduce di dimensione, in ogni senso. Penso e spero che i giovani vogliano ancora darsi da fare per risuscitare un cinema brillante, anche se non strettamente intellettuale, va bene pure l’azione. Io direi ai ragazzi: preparatevi bene e salvateci.
