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Medfilm Festival

Erige Sehiri al MedFilm Festival: dal documentario alla finzione

Dal reportage al set: la transizione di Sehiri verso la fiction

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Erige Sehiri è una regista franco-tunisin­a che porta con sé l’urgenza del documentario e la forza della finzione. Nata a Lione nel 1982 da genitori tunisini, ha vissuto un cambiamento personale e storico che le ha dato la spinta a raccontare storie non convenzionali, intrecciando giornalismo, impegno sociale e cinema. È ospite al MedFilm Festival con il suo ultimo lavoro, Promis le Ciel (in inglese Promised Sky),  presentato in apertura della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes è consacrata come uno dei titoli di punta del cinema contemporaneo franco-tunisin­o.

Nel film, Sehiri esplora con delicatezza la vita di tre donne che vivono in Tunisia, intrecciate da un dramma comune, in un contesto di migrazione, identità e solidarietà. Con Promis le Ciel, la regista si conferma interprete attenta delle trasformazioni sociali dell’Africa e del Mediterraneo, riflettendo sul tema del “diritto all’altro”, dell’accoglienza e della dignità che si costruisce nella condivisione.

Uno sguardo nella carriera di Erige Sehiri

Si è trasferita a Tunisi, e questo è coinciso con la rivoluzione tunisina. Come ha influenzato quel momento di cambiamento così radicale e profondo il suo desiderio di prendere in mano la macchina da presa e iniziare a fare cinema?

Direi… in tutto. Perché non è da tutti i giorni trovarsi a vivere una rivoluzione, o un grande movimento, una transizione democratica nel proprio Paese d’origine, un Paese che credevi di conoscere — ma che, in realtà, non conoscevi davvero. È stato un periodo davvero toccante e molto importante.

Sì, ha cambiato tutto. A quel tempo lavoravo come giornalista, avrei potuto continuare su quella strada, ma ho sentito il bisogno di andare più a fondo, di fare un lavoro più profondo con il cinema. Per me è stato più un viaggio emotivo che giornalistico. E così, per mantenere viva quell’emozione e guardare la società tunisina con un altro sguardo — il mio sguardo — il cinema è diventato il modo per farlo.

I suoi film cercano sempre la verità più cruda nelle storie di tutti i giorni. Cosa l’ha aiutata in quanto giornalista a trovare le persone giuste e soprattutto le parole giuste per i personaggi?

Penso che ci sia la stessa attitudine, la stessa radice. All’inizio è molto simile: come giornalista, fai ricerca, cerchi un modo per accedere alla tua storia. Serve tempo per scavare, per capire, per assicurarti che quello che scriverai non sia fuorviante. Nel cinema è lo stesso approccio, ma poi scrivo una storia a partire da quello. Raccolgo diversi elementi, faccio ricerche, mi immergo totalmente.

Trascorro del tempo nei luoghi, con le persone. È sempre un lavoro di immersione. Per esempio, prima erano i contadini, poi i ferrovieri, ora sto lavorando sulle chiese — diciamo, le chiese “illegali” in Tunisia. Ogni volta è un mondo diverso in cui devo entrare, studiare, passare tempo con le persone, guadagnarmi la loro fiducia e avere accesso al loro mondo, che non è il mio. E poi, quel mondo, in un certo senso, diventa parte del mio.

Uno dei suoi esordi più acclamati è stato il documentario Railway Men. Com’è stato passare dal documentario alla fiction? Qual è stata la parte più difficile?

In realtà, la transizione è stata molto fluida, perché ho mantenuto lo stesso DNA del documentario, lo stesso approccio. La differenza è che ora ho più controllo e più libertà. Posso raccontare la storia che voglio, scegliere i luoghi dove girare, decidere tutto. Non è stato difficile: mi sono sentita più libera nella fiction che nel documentario, pur mantenendo l’autenticità del documentario — lavorare con le persone, restare in un approccio collettivo.

Per me il documentario è sempre un lavoro collettivo, non una storia individuale tipo “un uomo ama una donna, una donna ama un uomo”. È sempre radicato in un contesto politico, sociale. Quindi l’approccio all’inizio è lo stesso. Spesso trovo i miei personaggi durante la ricerca documentaria. Il mio primo film di finzione, per esempio, era interpretato solo da non-attori. Scrivo la storia, a volte la co-scrivo, poi lavoriamo con le prove. È semplicemente un altro modo di fare cinema — più intenso, certo — ma che mi permette di avere più controllo.

Promis le Ciel al MedFilm Festival

Per Promised Sky (in francese Promis le Ciel), ha trovato prima gli attori e poi scritto la sceneggiatura, oppure il processo è stato diverso?

È un misto. E preferisco dire Promis le Ciel, perché secondo me in francese il titolo è più vicino allo spirito del film. In inglese sky è solo “cielo”, ma in le Ciel c’è anche il senso di “paradiso”. Ha una doppia dimensione, più spirituale, più poetica. Quindi sì, Promis le Ciel è più giusto.

È davvero un mix: ho lavorato con attori professionisti e con non-attori. I ruoli dei professionisti si basano su personaggi che ho incontrato, anche se non sempre direttamente. Per esempio, il proprietario della casa è un archetipo, non una persona reale. Anche Fouad, l’amico di Nanny, è un archetipo. Ma altri personaggi, come Naney, sono ispirati a persone reali. Nel suo caso, il personaggio si basa sulla sua vera storia, anche se poi l’abbiamo modificata. Diciamo che la base è quella, e ho scritto la storia attorno a lei.

È difficile spiegare esattamente perché ogni attore ha una relazione diversa con la storia e con me. Non è stato un casting tradizionale, con provini e scelte. Per esempio, il ruolo di Jolie, interpretato da Laetitia Ky — una straordinaria artista ivoriana che fa sculture con i capelli — l’ho scoperta su Instagram! Ha due milioni di follower. Quindi dipende, ogni film è diverso. Non ho un “processo fisso”: il mio processo è essere libera.

Come sei riuscita a creare una tale solidarietà e una così forte connessione emotiva tra gli attori sul set? C’è davvero una sensazione di famiglia nel film.

Sì, questo è stato il mio obiettivo principale: far credere che queste persone fossero una famiglia. In realtà, non si conoscevano affatto prima. La sfida era creare connessione, e credo che la magia sia nata dalla loro combinazione. Sono tutti molto diversi, ma condividono valori simili.

Ho spiegato loro profondamente il senso del progetto, il “perché” del film. Non è un film “sulla solidarietà” — è un film sulla solidarietà messa alla prova. La sorellanza viene sfidata da discorsi politici, da decisioni, da un clima d’incertezza. È come stare in apnea: non sai cosa succederà domani. È una storia di fragilità e forza allo stesso tempo — come le donne del film.

Durante le riprese ho voluto mantenerle connesse. È stato un set veloce — per me molto veloce, anche se per altri normale — ma la situazione era tesa, quindi abbiamo dovuto girare rapidamente. Eppure, qualcosa di magico è accaduto tra loro: erano lontane, diverse, ma allo stesso tempo molto unite. È quella sensazione che provi quando, in un momento di pericolo o caos, ti avvicini di più alle persone — ma è anche la stessa situazione che può separarvi.

Quanto tempo ci è voluto per girare tutto il film?

Cinque settimane. Sì, è un tempo normale per un film tradizionale, ma il mio non era un film completamente scritto. C’è molta improvvisazione, c’è un bambino, e questo richiede tempo. Non abbiamo potuto fare vere prove perché gli attori sono arrivati poco prima dell’inizio delle riprese. Ma è stata una bella sfida da affrontare.

Erige Sehiri, ha già altri progetti in mente dopo Promis le Ciel?

Sì, ci sto lavorando… ma non ne parlo ancora. Spero di poterne parlare l’anno prossimo, magari al prossimo festival. L’obiettivo è girarlo il prossimo anno — ma sì, ci sto lavorando.

 

Promis le Ciel