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Turandot, Ai Weiwei e la visione di Maxim Derevianko

Dal Teatro dell’Opera di Roma al Festival dei Popoli: il viaggio creativo di Derevianko e Cogo

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maxim derevianko

Diretto da Maxim DereviankoAi Weiwei’s Turandot è un documentario particolare che mescola arte e attivismo. Il film, proiettato in anteprima nazionale al festival dei Popoli 2025 come proiezione speciale all’interno della sezione Doc Highlights, è scritto insieme a Michele Cogo.

Ai Weiwei’s Turandot segue l’artista di fama mondiale Ai Weiwei alle prese con la messa in scena della Turandot al Teatro dell’Opera di Roma, trasformando il capolavoro pucciniano in una potente piattaforma artistica e politica e utilizzando la vicenda come sfondo per affrontare molte questioni che affliggono l’umanità.

Attraverso immagini inedite, momenti di creazione scenica e profonde riflessioni personali, Ai Weiwei’s Turandot diventa un viaggio tra arte, attivismo e memoria collettiva, in un momento storico segnato da crisi globali e ridefinizioni culturali.

Ai Weiwei’s Turandot di Maxim Derevianko è una produzione Incipit Film e La Monte Productions, in associazione con AC Films, White Feathers Films e Homemade Entertainment LLC, con il sostegno di Fondo Audiovisivo FVG, Io Sono Friuli Venezia Giulia e Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, in collaborazione con il Teatro dell’Opera di Roma.

Nella cornice del Festival dei Popoli abbiamo fatto alcune domande al regista Maxim Derevianko e all’altra penna del film Michele Cogo.

Qui per leggere la recensione del film

Maxim Derevianko e il suo Ai Weiwei’s Turandot

Come hai avuto l’idea di questo film? Cosa ti ha spinto a raccontare una storia nella storia?

Maxim: Il film è nato perché lavoravo al teatro dell’Opera come videomaker e realizzavo per loro i vari trailer dei vari spettacoli, più o meno dal 2015. Stando lì ho scoperto, tornando indietro di circa 100 anni, al 1922, che il mio bisnonno era entrato nell’orchestra del teatro dell’Opera di Roma come primo violino.

Foto di Fabrizio Sansoni

Da quando l’ho scoperto, ogni volta che passavo davanti alla buca dell’orchestra, mi sorprendeva il fatto che io praticamente, quasi cento anni dopo, ero là dentro, nello stesso luogo, anche se a fare tutt’altro. Ero in un luogo che è un posto chiaramente storico, che ha una sua aura particolare, e tutto questo ha iniziato a interessarmi e affascinarmi particolarmente. Questo finché a un certo punto mi sono detto che volevo fare qualcosa che fosse importante per me e per il luogo e che avesse un senso, non solo a livello commerciale e di marketing. Per questo ho deciso di fare un documentario, non sul teatro dell’Opera di Roma come istituzione, ma proprio sulla vita che c’è dietro a ogni singola produzione, perché è lì che si incrociano le esperienze e le vite di tantissimi artisti che portano in scena l’idea di una persona, vissuta magari anche cento o duecento anni prima.

Poi praticamente ho trovato una casa di produzione in Incipit Film, che ha creduto nel progetto e mi ha presentato Michele Cogo, il co-sceneggiatore che ho conosciuto per la prima volta a Bologna. Insieme ci siamo informati sul programma che ci sarebbe stato al teatro dell’Opera di Roma l’anno successivo, cioè il 2020 perché era il 2019. Michele ha avuto, poi, l’idea di base del film perché abbiamo visto che c’era Ai Weiwei che faceva la Turandot, e da lì è partito tutto. Sapevamo che lui era un artista che non aveva mai approcciato l’Opera e non aveva mai fatto teatro in assoluto e sapevamo, quindi, che avrebbe guardato il mondo dell’Opera e del teatro in una maniera completamente nuova e diversa. Era una persona che si approcciava a quel mondo con occhi completamente freschi.

Una scrittura bilanciata

Allora è più che una storia nella storia se, a maggior ragione, c’è anche questo legame speciale. Com’è stato collaborare insieme alla scrittura di questo documentario?

Michele: Quando ci siamo incontrati abbiamo raccolto davvero tanto materiale e con una qualità molto alta. Per la scrittura in senso stretto, con il documentario, a differenza del film di finzione, il modo di fare e anche di capire dei protagonisti lo scopri strada facendo. Qualcosa lo puoi incastrare, ma poi tutto può cambiare. Abbiamo scelto il soggetto, ma poi quello che è successo intorno a noi ha complicato la realtà del film. Per esempio tutti gli avvenimenti, dal Covid alla guerra, che hanno rallentato inevitabilmente tutto, anche il film, in realtà hanno favorito la storia e la sua realizzazione. Sono tutte cose pesanti che, però, nel film contribuiscono a forzare la drammaturgia e a far venire fuori un senso che non era prevedibile, ma che è legato molto al senso dell’opera, di Ai Weiwei, del suo parere.

Infatti, secondo me, avete trovato il giusto e perfetto equilibrio nel bilanciare gli elementi, le tematiche e nel raccontare la realtà intervallandola all’opera e viceversa.

Maxime: Devo dire che più che altro la struttura del documentario abbiamo cercato di costruirla anche dopo, a livello di montaggio, con tre livelli. Scopriamo insieme di che cosa parla la Turandot, quindi Calaf, l’esiliato, che sfida la gelida principessa, e in parallelo scopriamo Ai Weiwei, quindi il dissidente cinese che sfida la dittatura cinese. Quindi abbiamo la Turandot che vuole sopprimere metaforicamente Calaf, e dall’altra parte il governo cinese che vuole sopprimere l’arte di Ai Weiwei. Poi, insieme, abbiamo la storia della produzione stessa, noi compresi, che veniamo schiacciati dal Covid, che, anche se non è un elemento politico, è comunque quel qualcosa che ha fatto chiudere tutto e non ci ha permesso per un certo periodo di tempo di comunicare. In più c’è la guerra. Quindi ci sono questi tre livelli che vanno insieme, in questo scontro tra la libertà di espressione e chi prova a contrastarla.

L’universalità del documentario di Maxim Derevianko

Credo che questo parallelismo tra Turandot e Ai Weiwei sia un modo anche per universalizzare il tutto, soprattutto un’opera nota e, al tempo stesso, poco nota come questa. Alla luce di questo si potrebbe anche considerare il tuo tentativo come un incentivo sia a conoscere la figura di Ai Weiwei sia a far appassionare all’opera?

Maxim: Quando ho iniziato a collaborare con il teatro dell’Opera, il mio obiettivo principale era proprio questo, e scrissi anche al teatro per proporgli di iniziare a fare qualcosa per promuovere l’opera. All’epoca io avevo appena finito la scuola di cinema e scrissi al teatro proprio con l’intenzione di fare video per i social, o comunque per rivolgersi a una nuova generazione, in modo tale da far arrivare l’opera, il teatro, il balletto alle nuove generazioni, cioè comunicare attraverso i nuovi mezzi. Con il documentario chiaramente questa cellula mi è rimasta, cioè il cercare di interpretare e far vedere l’opera come un qualcosa di molto godibile e contemporaneo. Se ci pensi, poi, anche la Turandot con il Nessun dorma, la conoscono veramente tutti, quindi in realtà è molto più pop di quello che si pensa.

maxim derevianko

In questo senso già il modo in cui lo presenti diventa più pop, nel senso che, oltre a intervallare le dinamiche reali con l’opera, essa stessa è raccontata in modo particolare. Penso, per esempio, all’inizio con i sottotitoli che scorrono come fossero i titoli di testa del film.

Maxim: Tutto è una metafora della realtà che andiamo a vedere, anche a livello di linguaggio. Per me i personaggi come Calaf, Liu, e gli altri, sono come delle icone che rappresentano dei giganteschi valori, ed essendo giganteschi si muovono lenti rispetto al resto. E quindi si muovono in slow motion, li vedi in quel modo perché quello che loro spostano è enorme. Quindi tutti quei titoli che appaiono in quel modo, è proprio come dicevi, anche perché quando li inquadravo mentre interpretavano i personaggi dovevano cercare di essere il meno reali possibili. Di conseguenza anche il loro movimento doveva essere alterato in qualche modo, e quindi la slow motion mi dava questa sensazione con tutto molto più intenso e gigantesco.

Gli incontri e le testimonianze

Per quanto riguarda invece le varie testimonianze, quella dell’amica in primis, come avete lavorato a livello di scrittura?

Maxim: Chiang Ching, l’amica, faceva parte fin dall’inizio del progetto, anche perché lei fa la coreografa della produzione della Turandot, e in più era amica da sempre di Ai Weiwei, nonché la persona che l’ha coinvolto, l’ha chiamato quando lui studiava a New York ed era un ragazzo che studiava arte all’università. L’ha chiamato per pochissimo per andare a fare la comparsa nella Turandot di Zeffirelli al Metropolitan, e Ching Chiang faceva la consulente artistica di Zeffirelli, in quel progetto. Fondamentalmente è questo il motivo per il quale lui ha accettato, perché altrimenti avrebbe dovuto trovare un senso per fare un’opera (non l’avrebbe mai fatta tanto per farla). Non a caso abbiamo scelto di iniziare con una frase specifica: all’inizio lui dice A me non piace la musica, non piace l’opera. Quindi ci domandiamo qual è il senso di accettare un incarico del genere.

Michele: Ching Chiang, poi, è arrivata quando il materiale ha cominciato a modificarsi notevolmente, anche perché non era previsto girare il film in questo modo. A un certo punto ci siamo trovati con del materiale molto eterogeneo e abbiamo cercato un modo per fare da collante con tutto. Per questo abbiamo pensato che la voce più calda e più lucida fosse quella della sua amica che l’aveva invitato a fare la stessa cosa con Zeffirelli, e lui ha ricambiato tanti anni dopo, chiamandola per lavorare alla sua attività. Lei poteva essere qualcuno in grado di guidare tutto questo, anche se poi, in realtà, dopo si sono unite tante altre voci.

Maxim: Lei ha vissuto tutto della sua vita, anche il momento in cui lui è stato rapito, quindi era proprio la persona perfetta che poteva parlare per lui, sia da un punto di vista molto intimo e personale, al di fuori dell’arte, ma anche dal punto di vista artistico. Era la persona necessaria.

E sulla frase iniziale con la quale Ai Weiwei spiega che non ama l’opera cosa mi potete dire?

Maxim: È divertente perché, in realtà, io non volevo iniziare con quella frase, con lui che dice che non gli piace l’opera, perché pensavo che fosse un po’ offensivo nei confronti di chi fa teatro. Michele, invece, mi ha convinto dicendomi che così facendo avremmo tirato fuori il suo vero carattere.

Michele: Con una sola frase capisci già chi è lui. Sta facendo un’opera lirica e dice che si annoia e non ascolta musica. Così capisci subito chi ti trovi davanti.

Maxim Derevianko e Michele Cogo al Festival dei Popoli

Il film viene proiettato al Festival dei Popoli. Cosa vi aspettate, considerando anche che non è un documentario che racconta una storia, ma piuttosto un documentario che rivela un personaggio e che nasconde, come dicevamo, anche un discorso sociale?

Maxim: Quando mi sono approcciato a questo progetto la mia domanda era cercare di capire che senso avesse fare arte e a che serve l’arte oggi. La Turandot di Ai Weiwei è semplicemente il mezzo con cui abbiamo cercato di rispondere a questa domanda. Però naturalmente è applicabile a qualsiasi forma d’arte.

Realizzando questo film e seguendo Ai Weiwei nel suo processo, attraverso tutto quello che noi abbiamo passato, ma anche lui e tutto quello per cui lui si batte io penso di aver trovato la mia risposta. Per esempio con il Covid, che è forse la cosa che ci ha messo più di tutti in crisi, perché ha riguardato veramente chiunque, la cosa che, secondo me, ha salvato la vita delle persone, a parte le cure, le medicine e i medici, è stata l’arte. La gente ha ricominciato a leggere, a guardarsi i film, a suonare la chitarra. C’era questa esigenza, questo impulso dell’essere umano di comunicare attraverso un qualche cosa che è appunto l’arte, indipendentemente dalla forma. E, oltre all’esigenza di esprimersi, attraverso il filtro di Ai Weiwei, si capisce in realtà come l’arte può anche essere utilizzata per avere un impatto sociale reale. Ed è quello che provo a fare con questo film. Quello che voglio cercare di comunicare è che attraverso l’arte si può combattere, soprattutto in un mondo come quello di oggi.

Anche perché il film stesso è un esempio perfetto di questo nel senso che nonostante il covid, nonostante tutto, siete andati avanti e avete portato a termine il lavoro.

Maxim: La guerra è presente indirettamente nel film, ma per puro caso, non era previsto. La direttrice d’orchestra e la cantante che facevano la Turandot, però, erano entrambe ucraine e la guerra è esplosa qualche giorno prima della prima tanto che non sapevamo nemmeno se avrebbero voluto proseguire. Per questo c’è una scena molto bella e significativa della direttrice che indossa una fascia gialla e blu in vita per prendere una posizione e trasformarsi quasi in una combattente attraverso un’altra forma.

Michele: Come ha detto Maxim, anche secondo me il bello di questo film è che viene fuori il fatto, per noi importante, del ruolo dell’arte che spesso viene visto o come intrattenimento o come terapia. Se non c’è arte, se non la fai e non la pratichi l’essere umano non ha modo di esprimere alcune cose. L’arte lavora sulle emozioni, trasmette, comunica ed è come se fosse un cordone ombelicale che va dagli autori al pubblico quando funziona. Se vuoi trasmettere qualcosa non puoi limitarti a darne una definizione, ma devi vivere l’esperienza immediata che è quella dell’arte che è vitale e che comunica.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Ai Weiwei's Turandot

  • Anno: 2023
  • Durata: 77'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Maxim Derevianko