Cosa significa appartenere a due mondi che non si parlano? Cosa succede quando la verità di una madre e quella di una figlia non trovano lo stesso linguaggio? O meglio restano in silenzio sperando che una delle due parli?
Bouchra di Meriem Bennani e Orian Barki, presentato in concorso ad Alice nella Città 2025 dopo il successo al Toronto International Film Festival, è un cortometraggio che rifiuta la linearità del racconto per costruire un linguaggio ibrido, libero, intimo.
Prodotto da 2 Lizards Production, Hi Production e Fondazione Prada, il film intreccia animazione 3D e memoria personale, tra il Marocco e New York, per indagare la relazione complessa tra una madre e una figlia queer. È cinema che parte dalla biografia per diventare riflessione collettiva, e che guarda all’infanzia, alla fede e al corpo come luoghi di costruzione identitaria.
Un’opera che si inserisce perfettamente nella poetica del festival, da sempre spazio per le forme nuove e le voci ibride, in cui l’intimità diviene atto politico.
Bouchra. Una madre, due verità
“Ero come uno zombie.”
Lo dice la madre, attraverso una voce che arriva come un’eco lontano, piena di dolore. È una frase che contiene tutto il peso di una generazione: quella che ha imparato a sopravvivere senza capire, ad amare senza chiedere, a esistere senza nominare.

Bouchra, la figlia, vive invece nella tensione continua tra due identità. Da un lato è l’artista queer che ha lasciato Casablanca per vivere a New York. Ma dall’altra la donna che deve mentire a sua madre, omettere parte della sua vita. Il tutto attraverso una maschera, che deve acquisire per poter far parte della realtà famigliare. Quando torna dalla madre, cardiologa nella realtà e pittrice nella narrazione, la distanza tra loro diventa la vera protagonista del film.
“Non sapevo che tipo di film fosse, ma sapevo che dovevamo farlo”
Raccontano Bennani e Barki. Ed è in questa indecisione fertile che il film trova la sua forma: un mosaico di confessioni, di telefonate, di silenzi.
Cosa significa, oggi, dire la verità? E a chi la si può dire, quando la famiglia è il primo luogo da cui ci si nasconde?
L’animazione come verità
Il linguaggio visivo di Bouchra è il suo cuore pulsante. I personaggi sono animali antropomorfi in 3D: Bouchra e la madre sono due coyote, la ex Nikkie una mucca, la nuova compagna Lamia un’orsa. Una scelta che potrebbe sembrare ironica, ma che diventa rivelatoria.
“Volevamo un linguaggio che ci liberasse dal peso della rappresentazione”
spiegano le due registe. L’animazione, qui, che in parte ricorda l’universo dei furry, diventa dunque uno specchio delle anime. Non a caso la protagonista è una coyote e la nuova fiamma una orsa. L’Orsa difatti viene spesso visto come un animale potente, regale ed al contempo protettivo: simbolo di forza interiore e coraggio. D’altro canto la coyote incarna la sopravvivenza e l’adattamento. È un animale estremamente resiliente, capace di prosperare in ambienti in costante evoluzione. Nikkie l’ex ragazza invece porta le sembianze della mucca. Un animale in grado di contrastare l’energia caotica del Coyote, evidenziando il divario tra la personalità della protagonista e la tranquillità rappresentata dall’ex partner.

L’uso del digitale diventa allora un atto politico: parlare attraverso un filtro per dire con più forza la verità. È lo stesso principio che attraversa Flow di Gints Zilbalodis, o Petite Maman e Tomboy di Céline Sciamma, che riflettono sull’identità e sulla relazione madre-figlia con una tenerezza spiazzante. Così, l’animazione di Bennani e Barki non costruisce un altrove, ma amplifica il reale, lo fa vibrare, lo rende più vicino, più umano.
Bouchra. Il linguaggio del silenzio
“Abbiamo deciso di fare il film così com’era, senza aspettare permessi.”
Dietro questa frase c’è tutto lo spirito di Bouchra: la libertà di raccontare e soprattutto urgenza di raccontare, la necessità di dire, di mettere in scena la vulnerabilità come forma di coraggio. La madre e la figlia comunicano per frammenti, dalle telefonate, ai messaggi e respiri. Ed è proprio in quelle pause che nasce un nuovo linguaggio. Spesso visibile anche negli occhi dei personaggi stessi, che grazie all’animazione parlano da soli. Fuoriescono le emozioni.
La paura di salire in ascensore, ricorrente nel film, diventa metafora di un’intera condizione. Il timore di perdere il controllo. La paura di restare bloccate una volta dentro la conversazione. Difatti l’ascensore sale da sola, le gambe no. Una paura che madre e figlia condividono sin dall’inizio. Tantè che Bouchra fa undici piani a piedi a New York, pur soffrendo d’asma.

Ma non si tratta di “capire” o “tollerare”. Bouchra rifiuta ogni logica di concessione: mostra con chiarezza che l’amore non è negoziazione, è accettazione di una normalità che troppo spesso viene ancora percepita come eccezione.
Dialogo interculturale e l’eredità di 2 Lizards
Bouchra consolida il dialogo tra arte e cinema. Già avviato dalle due registe nata quasi per gioco durante il lockdown con la miniserie 2 Lizards. Da quell’esperimento intuitivo, dove due lucertole animate commentavano la pandemia, è emersa questa formula vincente: l’utilizzare l’alterità dell’animale antropomorfo per commentare la realtà attraverso l’acuta ironia.
L’opera riesce dunque ad estendere questo modello per affrontare il complesso scontro interculturale e generazionale. Il tutto attraverso una vera e propria coproduzione transnazionale fra Italia, Marocco, USA e linguistica: arabo marocchino, inglese, francese. Rendendo così facendo la diaspora non solo un tema, ma una struttura portante dell’opera stessa. E lo fa attraverso una regia immersiva ed un estetica che ha preso vita dagli stessi disegni che Bouchra realizza. Una storia nella storia.