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‘Black Phone 2’: il Rapace ritorna dall’Inferno di ghiaccio

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Oggi l’horror funziona così. Se un mostro funziona, se un nemico fa paura, deve tornare. Deve diventare franchise. Scott Derrickson lo sa (vedasi il suo esordio, Hellraiser 5, e il suo più grande successo commerciale, Doctor Strange). La Blumhouse lo sa e lo sa fare (vedasi The Conjuring and Co). Perciò, come successo per Sinister, anche Black Phone meritava un sequel: ed ecco Black Phone 2, in sala dal 16 ottobre.

Black Phone 2.0

Forse il titolo più azzeccato era Black Phone 2.0. Infatti, Black Phone 2 cambia poche cose rispetto al primo film, ma quella che cambia è fondamentale. I protagonisti sono gli stessi: Finn (Mason Tames), il reduce in conflitto adolescenziale, la sorellina Gwen (Madeleine McGraw) e il Rapace (Ethan Hawke), il serial killer psicopatico e mascherato sconfitto nel primo film. Il conflitto resta quello: evitare di morire per mano di questo folle che in questo capitolo torna dagli Inferi per vendicarsi.

È proprio questo elemento che caratterizza Black Phone 2: il soprannaturale. Per questo 2.0, perché Derrickson opta per un altro genere. Nel primo film c’era un mondo aldilà un po’ fumoso, abbozzato, poco approfondito: in questo, invece, è centrale. Ci si sposta dalle parti di Lovecraft e King (l’opera di partenza è un racconto del figlio di King, Joe Hill: la mela non cade mai lontano dall’albero). Ted Bundy (che operava in Colorado, stessa location del film) diventa Freddy Krueger.

Il Rapace vuole vendicarsi del suo omicida, ma, per farlo, attacca attraverso Gwen. La ragazza, per via del suo potere psichico ereditato dalla madre, è l’esca con cui il Rapace vuole restituire il favore a Finn. Il killer-spirito demoniaco li attrae al campo invernale cattolico di Alpine Lake (la versione per ragazzi dell’Overlook Hotel) e da qui inizieranno i suoi attacchi vendicativi, mentre i due ragazzi dovranno trovare il modo di sconfiggerlo per sempre. Come i bambini di It contro Pennywise: ancora, la mela non cade mai lontano dall’albero.

Il mondo di qua e il mondo aldilà

Ecco la sfida più interessante di Black Phone 2. Come rendere questo mondo aldilà? Derrickson ci ha pensato, e ci ha pensato bene. Primo passo: cambiare la grana, sporcare, offuscare l’immagine. Secondo passo: un costante, oppressivo, implacabile drone a bassa frequenza, con i suoi punti di picco, che minaccia l’istinto di sopravvivenza dello spettatore. Terzo passo: imparando da Mario Bava, via la coerenza spazio-temporale di suoni e movimenti. I sogni non rispettano la fisica.

Inoltre, Derrickson sembra aver letto The Weird and the Eerie di Mark Fisher per costruire questo mondo onirico. Tralasciando le soluzioni visive già descritte, unite a un utilizzo citazionista della fotografia di Dario Argento (o forse più dell’Insidious di James Wan), è il concetto di “weird” che sembra aver influenzato Black Phone 2. In sintesi, è weird un elemento che si trova alle soglie del nostro mondo e di un mondo altro. Un qualcosa che si trova dove non dovrebbe essere e apre il passaggio per il mondo da cui proviene: Lovecraft, Lynch, Dick, sono tutti autori che hanno raccontato elementi weird. E Derrickson fa una cosa simile e lo fa dire alla stessa Gwen (“I’m weird”, più chiaro di così): lei può andare in quest’altro mondo, si trova sulle soglie fra queste due realtà, creando un’esperienza di straniamento alla base di tutto il film.

L’aldilà è ben costruito e funziona, anche troppo. Infatti, tornare nel mondo al di qua è deludente, dopo essersi immersi nell’altra realtà. L’impressione, comparando le scene oniriche a quelle realistiche, è che quest’ultime siano frutto dell’IA: pulite, nitide, lucide, perfette. Ovviamente questo non è un difetto, anzi: significa che l’estetica è efficace, convincente e, quindi, l’aldilà fa paura, fa provare quell’emozione che un appassionato di horror ricerca e anela in ogni film. Quando le sequenze di questa dimensione terminano, c’è una brusca interruzione di quel meccanismo immersivo che non riesce a proseguire nella realtà normale, resa con l’estetica perfettissima del digitale. Black Phone 2, riprendendo anche il lavoro del quasi contemporaneo Longlegs, ha capito che la perfezione non fa paura. La perfezione non emoziona.

Ponti generazionali

I sogni permettono anche di comunicare con il passato. Ambientato negli anni ’80, Black Phone 2 ha anche una parentesi ambientata negli anni ’50 (gli stessi anni in cui Stephen King ha ambientato molti dei suoi romanzi, ma ormai si è capito, la mela non cade lontano dall’albero), in cui viene coinvolta la madre dei protagonisti. Questa connessione con la generazione passata è sia uno strumento narrativo, sia uno dei temi del film: in famiglia si parla, anche se è difficile. I protagonisti non solo parleranno con la madre, morta tanti anni prima lasciando un buco incolmabile: proveranno a risolvere i problemi con il padre Terrence, un inetto in difficoltà emotive.

Non solo storia, non solo tema: la comunicazione fra generazioni è anche un discorso metacinematografico instaurato da Derrickson e C. Robert Cargill (co-sceneggiatore). Sempre attraverso Gwen, protagonista indiscussa di Black Phone 2, gli autori intendono far parlare la Generazione Z alla generazione dei propri genitori. Infatti, Gwen ha molto poco degli anni ’80 veri e propri: è più figlia degli anni ’80, di quelli visti in Stranger Things, pensati per la Generazione Z, che non li ha vissuti se non attraverso film e canzoni. Gwen è una ragazza degli anni 2000, senza quelle costrizioni sociali che negli ’80 reaganiani erano preponderanti.

Al contrario, Finn, adolescente maschio bianco etero (in teoria), è lo stereotipo del ragazzo che non sa uscire dal suo ruolo di genere: deve proteggere sua sorella, come un cavaliere senza macchia e senza paura. Però, questa cosa non è facile. Ed è proprio Gwen, con il suo capello corto e il suo parlare sguaiato, a dirglielo chiaramente. In Black Phone 2 la Generazione Z parla a sé stessa, al suo passato e se lo dice chiaramente: possiamo essere deboli.

Cosa manca a Black Phone 2

Al netto di tutti questi discorsi rintracciati, Black Phone 2 è comunque un sequel prodotto dalla Blumhouse, un’industria dell’horror. Perciò, non si può filosofeggiare più di tanto: non siamo alla A24, qui si fa spettacolo. Derrickson (che, non va dimenticato, ha anticipato l’elevated horror di circa dieci anni con il suo The Exorcism of Emily Rose) ha chiaro dove si trova e sa come cavarsela. Sa quali sono gli incubi peggiori dell’americano medio: e, infatti, resuscita il Rapace, fa ritornare il rimosso (uno dei punti più solidi dell’immaginario americano, che con il Male cacciato non vuole averne più a che fare).

Però, questo nemico, comunque, a un certo punto deve poter essere sconfitto. Derrickson si distacca dal modello Carpenter: la bufera di neve di Black Phone 2 è la stessa de La cosa, in cui, però, alla fine resta il dubbio su come si risolva la lotta con il Male. Qui le cose sono molto chiare. C’è un modo per sconfiggere il Rapace, che fino a quel momento non era battibile. Il punto è che questo modo spunta all’improvviso, dal nulla.

Non è un problema, è avvincente vedere i protagonisti avere una possibilità di vincere. È spettacolo. Però, appunto, se fino a quel momento Black Phone 2 costruisce un’emozione di costante paura con cui conquista lo spettatore, perché si sente la necessità di cambiare, di risolvere quello che sembrava irrisolvibile? Forse, perché in America problematizzare, discuterne, accettare che le cose non sono solo bianche o nere è il vero incubo. Molto più di un pazzo psicopatico squartabambini. Il Male, che sembrava poter diventare consustanziale, viene espulso un’altra volta.

Perciò, Black Phone 2 è un interessante sequel di un regista che da un lato scardina e da un lato ricostruisce il cinema horror di questi anni, trovando un equilibrio fra spettacolo e vera inquietudine.

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