È la sua immagine in mezzo alle macerie di Gaza. Solo, con il camice bianco, verso un carro armato israeliano, a rappresentare l’abbandono di Gaza e degli operatori sanitari palestinesi. È l’immagine di Ghassan Abu Sittah, chirurgo britannico palestinese noto, un tempo, per lo più, per la sua competenza nell’essere l’unico medico nel Regno Unito in grado di eseguire il lifting alle labbra senza cicatrici, e divenuto, attraverso quella foto, e la sua assistenza medica negli ospedali di Al Ahli e Al Shifa, un simbolo della resistenza palestinese. Un simbolo di un’umanità, volontà e generosità che, in una terra distrutta e fatta a pezzi con crudeltà ed efferatezza, ancora, esistono.
È tra quelle macerie, tra quei corpi e quelle memorie distrutte, tra il desiderio, nonostante tutto, per chi è riuscito a scappare, di tornare e ricostruire la propria terra, e tra le voci e le testimonianze di Ghassan, la sua famiglia e chi, nella sua missione umanitaria, l’ha accompagnato, che Muna Khalidi e Carol Mansour accompagnano lo spettatore in A State of Passion, presentato in concorso al Sole Luna Doc Film Festival.
Un documentario, realizzato da due donne come Manson, fondatrice della Forward Film Production con sede a Beirut che per vent’anni si è dedicata alla realizzazione di documentari che danno voce a comunità emarginate, e come Khalidi, un dottorato in politiche sanitarie e oltre trentaquattro anni di esperienza nello sviluppo sociale arricchendo i suoi film di narrazione incentrate sull’uomo, che, proprio sull’uomo, nella figura di Ghassan, e sull’umanità, la sua, quella della sua famiglia e quella di un popolo distrutto, si incentra.
L’impegno di Ghassan
A State of Passion si apre con le schermate delle ricerche online su Abu Sittah e gli articoli sulle sue operazioni estetiche, lasciando spazio, in meno di venti secondi, a immagini di distruzione, bombardamenti, corpi esanime, persone insanguinate e intrappolate tra lastre di cemento e grida di dolore, tra quello che rimane di Gaza e degli ospedali della città. Proprio in quelle stanze dove, tra disperazione e speranza, Ghassan ha portato il suo contributo, da dove se ne è andato, consapevole che non avrebbe potuto fare altrimenti, data la scarsità e limitatezza delle risorse e delle forniture, e dove, come afferma nel documentario, è sicuro che tornerà.
Come ha sempre fatto, dal 1987, quando è partito il suo viaggio umanitario come chirurgo traumatologico durante la prima Intifada, e, poi, quando è tornato, dopo poche settimane dal proprio matrimonio, nel 2000, durante la seconda Intifada. E nelle successive guerre del 2009, 2014, 2019, con la Grande Marcia del Ritorno, ricordando, con un’immagine ancora vivida, quel “Lunedì nero” in cui le forze israeliane massacrarono 2 mila e 500 persone in una sola notte. E poi, ancora, nel 2021 e, infine, nel 2023, dopo l’inizio delle ostilità del 7 ottobre, operando bambini e bambine senza anestesia, recuperando pezzi di corpo e offrendo loro una tomba da altri negata. Raggruppando nomi, volti, storie e vite, per lo più mutilate e distrutte.

I luoghi di vita e morte
Sono quelle stesse immagini, rievocate dalla voce di Ghassan, dai messaggi vocali inviati ogni giorno alla famiglia per assicurare loro di esserci ancora, fino agli interventi in conferenze e alle testimonianze nelle interviste presenti in A State of Passion, cui Muna Khalidi e Carol Mansour danno spazio, senza scadere nel patetico, ma offrendo una finestra, diretta e straziante, sulla realtà. Una realtà fatta di edifici ridotti in polvere dai bombardamenti e di uomini, donne e bambine mutilati, feriti e senza vita, le cui immagini si intersecano, nel documentario, alle parole di Ghassam e della sua famiglia, al loro viaggio e alla loro storia, intrisa del dolore della guerra e, insieme, di impegno, attivismo e resistenza.
A fianco delle immagini del genocidio, la macchina da presa infatti segue Ghassan nei suoi viaggi, da Amman al Kuwait. Nei luoghi della sua infanzia, dall’abitazione dove è cresciuto, l’angolo dove con la bici si scontrò con un auto, la clinica dove il padre lavorava e dove disse lui che sarebbe divenuto un medico rinomato, fino alle mura della sua casa londinese, a stretto contatto con la moglie, Dima, i tre figli Hamza, Soleiman e Zaid e la sua parte, personale, più intima, ma sempre tratteggiata da un rapporto stretto con la guerra, che sembra ereditare.
I suoi zii e suo padre, sfollati da Gaza durante la Nakba del 1948, sono stati infatti patrioti della resistenza palestinese, così come Ghassan lo è tra le attuali macerie e, tra le mura di casa, per i suoi figli, spaventati che il padre possa non tornare, ma orgogliosi e fieri delle sue azioni. Lo è per l’unico zio ancora vivo, per la madre e per la moglie, che a Gaza è nata e cresciuta e lì, ha lasciato parenti e parti della propria storia.
La determinazione di un popolo
È la storia negata di un popolo, e una storia, intima, personale, di ciascuno di loro, cancellata, distrutta, portata via dalle bombe. Come le fondamenta e le pareti delle case, quella di Dima, già bombardata quattro volte nelle guerre precedenti, e ridotta in cenere da Israele, e quella di molte altre. Ma da quelle stesse fondamenta, con dolore, rabbia, incredulità ma anche orgoglio e determinazione, la stessa delle parole e dello sguardo della donna, che con un incredibile resilienza sostiene che quella casa prima o poi la ricostruirà, emerge il coraggio e la dedizione, non soltanto di Abu Sittah, ma di Gaza stessa. Perché, di questo, tratta A State of Passion: della determinazione, sì, di un uomo e medico come Ghassan, ma soprattutto della dignità un intero popolo e della denuncia di un genocidio, ancora in atto.