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Arabia Saudita: dal divieto al boom cinematografico

Haifaa al-Mansour e Mahmoud Sabbagh, due voci che hanno aperto la strada delicata del cinema

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Come si è passati dall’essere un paese in cui vigeva la censura della settima arte ad un paese che ospita film, talvolta, censurati? È quello che è successo in Arabia Saudita, che nel 2017 ha assistito ad una vera e propria inversione di tendenza culturale. Sono ora i paesi limitrofi, come il Kuwait, ad essere costretti a varcare il confine. Ne è un esempio il film Barbie di Greta Gerwig. Infatti, il presidente del comitato di censura cinematografica del Kuwait Lafy Al-Subei’e, sostiene che il film promuova:

“Idee e credenze che sono estranee alla società kuwaitiana e all’ordine pubblico”, e anche “idee che incoraggiano comportamenti inaccettabili e distorcono i valori della società”.

Tutto porta alla dimostrazione che l’abolizione del divieto trentennale, abbia giovato all’intero pianeta.

I titoli Netflix di maggio 2025

Un’immagine dal film ‘Barbie’ (2023), fonte: Netflix

Quale è stata la causa del suo divieto?

È importante sottolineare che prima del divieto, il cinema aveva già effettuato la sua comparsa nel Regno dell’ Arabia Saudita. Le prime produzioni risalirono proprio all’inizio degli anni 50. Nonostante ciò queste produzioni, in piccola parte locali, erano delle attività per lo più private. La causa era legata ad una già esistente opposizione di natura etica e religiosa.

Il divieto ufficiale arrivò nel 1979, a seguito del sequestro della grande Moschea della Mecca. Questo attacco avvenuto da un gruppo di estremisti, fu percepito come un’occidentalizzazione del Regno. L’assalto vide centinaia di morti, rappresentando una crisi di legittimità per la monarchia Saudita. Il divieto non fu una semplice reazione religiosa, ma una manovra politica per rafforzare lo Stato che in quel periodo storico necessitava di consolidare il proprio potere.

Le voci del cinema clandestino

Nonostante le difficoltà legate al divieto ufficiale, la passione però non si è mai spenta. Il consumo filmico si espandeva in forme alternative; viaggiando, ad esempio, verso paesi più vicini, come Bahrain e Dubai. Questi spostamenti incentivavano la vendita di migliaia di copie pirata e la circolazione di file condivisi.

Nacque anche una resistenza pacifica: il collettivo clandestino “Red Wax”; un gruppo di 5 cineasti che tramite il loro nome alludevano metaforicamente ai sigilli ufficiali usati per reprimere la libertà. Red Wax organizzava proiezioni segrete all’interno di luoghi non convenzionali come il magazzino ad Abha e inoltravano l’invito tramite messaggi di testo, adottando ovviamente rigorose misure di sicurezza, al fine di evitare l’intervento delle forze armate. Tali eventi non rappresentavano solamente un’occasione di intrattenimento, ma divenivano spazi di dibattito in cui poter trattare temi sensibili e tabù, tra cui i diritti delle donne.

La revoca del divieto

Nel dicembre 2017 l’Arabia Saudita annunciò la fine del divieto trentennale e le sale riaprirono nel marzo 2018, come parte del noto programma di riforme, “Vision 2030”, del principe Mohammed bin Salman. Questo progetto aveva il fine di diversificare l’economia Saudita. L’obiettivo era quello di ridurre la dipendenza dal petrolio e di stimolare nuovi settori, come l’intrattenimento e la cultura che portassero alla creazione di nuovi posti di lavoro. La serietà e la fiducia dietro questo atto le dimostrano gli oltre 933 milioni di dollari investiti in infrastrutture e servizi cinematografici. Un chiaro segnale di ricercata modernizzazione.

L’investimento è divenuto ben presto un esempio di “soft power”. L’approccio consisterebbe nell’utilizzo della cultura e dell’intrattenimento in modo mirato per migliorare l’immagine del paese, oltre che rafforzare la sua influenza a livello globale. Nonostante l’entusiasmo per la riapertura nei confronti del cinema, il panorama cinematografico rimaneva vincolato dalla “liberalizzazione gestita.” Le autorità hanno chiarito che i contenuti venivano comunque ispezionati, poiché vige l’obbligo di conformità con la “politica mediatica del regno”.

“Non credo che questo segni l’inizio di una nuova era per la libertà di espressione…”

sostiene  il critico egiziano Joseph Fahim. L’apertura del mercato Saudita si orienterebbe comunque verso una produzione cinematografica di natura più conservatrice. Un fenomeno, a suo dire, già avvenuto negli anni ’80 nel cinema egiziano.

Haifaa al-Mansour: la pioniera del cinema femminile

Haifaa al-Mansour, nata nel 1974 ad Al Zulfi, in provincia di Riad, è la prima regista donna del paese. Ottava di dodici figli, è stata introdotta al mondo cinematografico da suo padre: il poeta Abdul Rahman Mansour. Per i suoi studi si trasferisce in Egitto, dove si laurea in lettere all’università americana del Cairo, per poi proseguire all’università di Sydney con un master in regia. La sua carriera si è avviata tra cortometraggi e documentari che affrontavano le sfide e le vite nascoste delle donne che vivono nei paesi arabi del Golfo.

La sua opera più celebre è Wadjda (2012). Non solo, il film, è girato durante il periodo proibizionista, ma si tratta anche del primo lungometraggio girato interamente in Arabia Saudita da una donna. L’opera cinematografica che attraversa la storia di una bambina di dieci anni che sogna di possedere una propria bicicletta, ha debuttato alla Biennale di Venezia . Il mezzo è ben presto divenuto simbolo potente di libertà ed autonomia, soprattutto in una società dove la bicicletta era considerata inadatta per una giovane ragazza.

Realizzare il film non fu semplice. La produzione durò ben 5 anni, a causa delle difficoltà nel trovare finanziamenti ed ottenere i permessi di ripresa. La regista infatti insistette molto per girare il film in Arabia Saudita, proprio per garantirne l’autenticità. Questa scelta ha richiesto tecniche di regia non convenzionali. Spesso, Haifaa al-Mansour, dirigeva la troupe e gli attori da dentro un furgone tramite un walkie talkie per evitare di mescolarsi pubblicamente con gli uomini.

Nel 2019, la regista, è tornata nel contesto post-divieto con La candidata ideale. Il film esplora il tema dell’emancipazione femminile con la storia di una dottoressa che si candida alle elezioni comunali sperando di fare giustizia.

“Sia Wadjda che La Candidata Perfetta sono stati proiettati molto nel mio Paese e ho ricevuto molti commenti positivi dai sauditi ovunque io andassi. È sempre speciale per me incontrare spettatori sauditi nei diversi festival cinematografici in tutto il mondo, perché sono particolarmente orgogliosa di condividere con loro un pezzo della mia terra, ovunque essi si trovino.”

Entrambi i film sono disponibili su Prime Video.

Mahmoud Sabbagh: la satira sociale come strumento di racconto

Accanto a Haifaa al-Mansour, un altro nome di spicco è quello di Mahmoud Sabbagh. Un autore che utilizza la commedia con lo scopo di affrontare temi sociali delicati. Dopo aver studiato a New York, Sabbagh, ha deciso di tornare in Arabia Saudita per lavorare come cineasta indipendente.

Barakah Meets Barakah (2016) è stato il primo film del Regno ad essere presentato alla Berlinale e anche la prima opera ad essere distribuita a livello internazionale da Netflix. Sabbagh ha utilizzato il genere della commedia romantica per esplorare in maniera spiritosa le difficoltà che le coppie affrontano nel tentativo di incontrarsi in una società complessa e basata sulla differenza di classe, che segue politiche rigide riguardo la segregazione di genere. Il suo stile leggero e umoristico, utilizza la commedia per rendere le sue opere molto più accessibili al pubblico, ma mascherando sempre più pesanti critiche politiche.

Con il tempo, la satira è divenuta il fulcro dei suoi lavori. Anche con Amra and the Second Marriage (2018), Sabbagh continua ad esplorare temi complessi. Il film è una black comedy che affronta con ironia la poligamia e la predilezione per i figli maschi. La storia segue una casalinga che scopre che il marito vuole sposare una seconda moglie molto più giovane di lei. Il regista a tal proposito si esprime nel seguente modo:

“Desidero un dialogo adeguato sui diritti delle donne e volevo compiere un gesto, lanciare un messaggio. Inoltre, il film non riguarda solo le donne, ma anche il patriarcato, la misoginia, una società spietata, la stigmatizzazione, in particolare delle casalinghe e di ciò che devono affrontare se chiedono il divorzio o se sono divorziate.”

L’industria cinematografica dell’Arabia Saudita oggi

Sicuramente la riapertura delle sale ha innescato una rapida espansione del settore cinematografico, riscuotendo interesse da parte di tutti i cittadini. Dati recenti hanno mostrato una crescita vertiginosa del mercato e ben 34 cinema sono nati in 12 città differenti. Il piano ambizioso rimane comunque il raggiamento di 2500 sale entro il 2030 che vada a completare così il famoso progetto ‘Vision 2030’. Inoltre, il box office saudita è stato l’unico mercato in tutto il mondo a registrare un vero e proprio aumento durante il picco della pandemia. Sono state aperte diverse catene internazionali come AMC, Vox e Muvi Cinemas, dimostrando dunque un massiccio afflusso di investimenti anche di natura estera.

Oltre alle sale cinematografiche prendono piede anche i Festival come il Red Sea International Film Festival a Gedda ed il Saudi Film Festival. Questo è infatti il festival più longevo del Regno e la piattaforma fondamentale per i cineasti locali, un luogo in cui avvengono discussioni e si presentano nuove opportunità di networking per aiutare i giovani talenti ad emergere e a trovare i finanziamenti necessari. D’altro canto il festival a Gedda, nato nel 2019, si è rapidamente affermato come un’importante vetrina internazionale per il cinema arabo, asiatico ed africano.

Cosa riserva il futuro?

È lampante che il cinema Saudita abbia completato ad oggi un ciclo straordinario, ma il suo futuro dipenderà dal delicato equilibrio tra gli obiettivi economici del governo e la necessità di una vera e propria libertà artistica. Certo è vero che grazie agli investimenti l’industria potrebbe diventare un vero e proprio punto di riferimento nella speranza che le linee rosse politiche, costituite dalla censura, non limitino la creatività dei cineasti portandoli ad abbandonare il paese oppure a conformarsi con le narrative ufficiali imposte. La vera sfida futura sta dunque nella capacità di raccontare storie che non si limitino a riflettere la volontà e la visione del governo, bensì la complessità creativa e la libertà di espressione.