Rashomon è un capolavoro di Akira Kurosawa, un film che ha permesso al cinema giapponese di farsi notare dal cinema occidentale, aprendo le strade a registi come Ozu e Mizoguchi. Il film, tratto dai racconti dello scrittore Akutagawa, ha vinto il Leone d’Oro a Venezia nel 1951. Un cult senza età che tratta l’egoismo dell’essere umano e la soggettività della verità.
Rashomon
Un monaco, un boscaiolo e un popolano si trovano sotto il portale in rovina di Rashōmon durante il diluvio di un forte temporale. I primi due, presenti in tribunale, hanno deposto su un delitto misterioso che ha coinvolto un samurai. L’imputato sembrerebbe essere il bandito Tajōmaru, presente in aula insieme alla moglie del samurai ucciso. Il monaco e il boscaiolo, testimoni del procedimento, raccontano la loro versione dei fatti al popolano.
Nel corso della storia, il mistero resta costante: le ricostruzioni dell’evento cambiano di continuo, influenzando profondamente lo svolgimento del giudizio.

Raccontare l’umanità in modo pessimista
Il film tocca diverse tematiche: l’egoismo dell’essere umano, la soggettività della verità, l’affidabilità della testimonianza e l’ambiguità. Un film di impronta pessimista nei confronti dell’essere umano caratterizzata dall’egoismo dei personaggi, espresso attraverso dichiarazioni e immagini, e che cerca di far riflettere lo spettatore.
Proprio le diverse testimonianze incidono sullo spettatore, mettendolo in una situazione di confusione e di incapacità a condannare il presunto colpevole Tajōmaru. Il film rimane sempre diretto nella stessa situazione senza mostrare colpi di scena. Kurosawa mostra le diverse versioni dei suoi personaggi dall’inizio alla fine.
Quello che emerge è come la soggettività della verità possa incidere in queste circostanze, in un caso di omicidio. Tajōmaru, la moglie del samurai e il samurai stesso – che testimonia da morto attraverso una medium – si rivelano egoisti. Offrono tutti una versione che li possa far apparire nel miglior modo possibile agli occhi del giudice, che non viene mai mostrato. L’essere umano appare inaffidabile con le sue testimonianze, rivelandosi pericoloso per la giustizia.
Il film parla in chiave pessimista, accendendo però un briciolo di speranza nei confronti dell’uomo. L’ultima sequenza, che ritrae il boscaiolo mentre si offre di sostenere il neonato abbandonato, è infatti caratterizzata da un’impronta più positivista e speranzosa, l’unica all’interno del film.

Una struttura narrativa non lineare
Quello che emerge a prima vista è senza dubbio la non linearità della narrazione. Rashomon è caratterizzato da flashback che conducono lo spettatore da un luogo a un altro, dal tribunale alla tragedia nel bosco, mostrando, con le sequenze, le dichiarazioni dei personaggi. Il montaggio è splendido e ricorre più volte alla wipe transition, lo scorrimento a tendina.
Se la narrazione non convenzionale è uno dei punti di forza, lo è altrettanto la regia possente di Akira Kurosawa. Il maestro giapponese non utilizza mai la soggettiva e la macchina da presa è ferma e frontale nel riprendere le testimonianze, come se il giudice, in realtà, sia incarnato dallo spettatore. Una trovata molto astuta, infatti, è che il giudice sia esterno al campo visivo, facendo sì che lo sguardo dei personaggi che testimoniano sia rivolto alla macchina.
La messa in scena è strepitosa, una fotografia in bianco e nero e una recitazione ammirevole. Le sequenze nel bosco sono riprese con maestria: è qui dove vengono mostrati tutti i diversi modi in cui muore il samurai.
In conclusione, Rashomon non è soltanto un film, ma anche un ritratto – volutamente pessimista – della natura umana, nel quale mostra un barlume di speranza nel finale.
Uno dei film più belli della storia del cinema che ha determinato l’ascesa del cinema giapponese e la fama del suo regista.