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Shrek, l’orco che demolì il castello Disney

Perché un antieroe sgraziato ha fatto più per l’identificazione generazionale di mille principi affascinanti

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Nel 2001 arriva un orco. Verde, sgraziato, socialmente indesiderabile. Vive in una palude e vuole solo essere lasciato in pace. È il contrario di tutto ciò che fino ad allora rappresentava l’animazione: non è carino, non è nobile, non sogna un lieto fine. Ma è proprio lui a cambiare la storia.

Shrek ora presente su Prime Video, non è soltanto un trionfo commerciale o un’icona pop. È una frattura. Una sovversione. È il momento in cui l’animazione americana guarda dritto negli occhi il canone Disney e gli dice: non ci basta più. E Jeffrey Katzenberg, ex artefice della rinascita Disney degli anni ’90, risponde fondando la DreamWorks Animation per rendere concreta quella ribellione.

La nuova favola: decostruire per ricostruire

La vera innovazione di Shrek non sta nell’uso della CGI, per quanto all’epoca avanguardistica. Sta nel risemantizzare il mito fiabesco. La struttura narrativa tradizionale viene decomposta e rimodellata: il protagonista non è un principe, ma una creatura marginalizzata; la principessa non è salvata, ma si autodetermina; il “cattivo” è una caricatura del potere autoritario e conformista.

Non è semplice parodia: è decostruzione sistematica del codice disneyano. Ogni gag scatologica, ogni gesto grottesco, ogni non detto diventa un atto politico. L’immaginario fiabesco, sacro e rassicurante, viene desacralizzato e restituito al pubblico sotto forma di critica culturale. Dove prima c’era l’ideale, ora c’è l’umano.

Shrek e l’antieroe dell’età contemporanea

Shrek è un antieroe nel senso più pieno del termine: rifiuta il consenso sociale, non possiede qualità morali canoniche, ma è autentico. Non si trasforma per piacere, non si redime, e non diventa migliore. Rimane se stesso. E viene amato proprio per questo.

Nel cinema d’animazione dominato dalla figura dell’eroe virtuoso, Shrek inaugura una nuova etica della soggettività. È irascibile, sarcastico, introverso. Ma anche vulnerabile, leale, emotivamente competente. Il suo rifiuto dell’ipocrisia collettiva diventa uno specchio per lo spettatore contemporaneo, stanco di modelli irraggiungibili e omologati.

L’identificazione non avviene tramite l’ideale, ma attraverso il riconoscimento del difetto. Shrek ci dice che anche l’escluso, l’imperfetto, il “mostro”, ha diritto alla narrazione. E alla felicità.

Jeffrey Katzenberg: l’apostata che mise in crisi il dogma

Katzenberg non è solo il produttore esecutivo. È l’autore implicito di Shrek. Dopo essere stato emarginato dalla Disney, che deve a lui la cosiddetta “Rinascita” (da La Sirenetta al Re Leone), decide di creare una casa alternativa in grado di respingere l’estetica rassicurante dell’animazione classica.

E lo fa con rabbia calcolata. La figura di Lord Farquaad: un despota di bassa statura, narcisista e autoritario, che richiama fin troppo chiaramente il volto di Michael Eisner, CEO della Disney dell’epoca. Shrek non è unicamente vendetta. Ma anche strategia: Katzenberg sa che il pubblico è maturo per un altro tipo di racconto. La DreamWorks non intende solo creare un concorrente alla Disney. Vuole esautorare il monopolio culturale del suo immaginario.

Fiona: sovversione e autodeterminazione

Fiona è la detonazione interna. La bomba che scardina la retorica della principessa. Non è solo diversa da Belle o Ariel: rifiuta il mito stesso della trasformazione redentrice. Non aspira a diventare umana: sceglie l’alterità. E lo fa con lucidità. Non subisce una maledizione: la trasforma in scelta identitaria.

È un gesto potente, politico, consapevole. La sua “bruttezza” non è pena né castigo, ma verità. Fiona è il primo personaggio femminile dell’animazione mainstream a incarnare una soggettività non estetizzata. Che possa esistere e essere amata fuori dal desiderio altrui.

Ed è qui che Shrek eccelle: sottrae la donna al vincolo del visibile e la restituisce al diritto di essere. Imperfetta, indipendente, protagonista. E questo, nel 2001, è ancora più rivoluzionario di quanto oggi ricordiamo.

Shrek 2: satira e semiotica del potere

Se il primo film era una ribellione, Shrek 2 è una presa di potere. Il sequel amplifica i toni, raffina la satira e colpisce direttamente il sistema valoriale dell’industria culturale americana. Il regno di “Molto molto lontano” è una replica grottesca di Hollywood, dove bellezza, successo e normalità sono dogmi da rispettare.

La Fata Madrina non è solo un personaggio comico: è l’incarnazione del mercato neoliberista. Promette felicità in cambio di conformità. In questo contesto, persino la colonna sonora – Holding Out for a Hero – diventa uno strumento di sovversione queer, un inno camuffato che rompe la superficie patinata con un messaggio implicito: l’identità non può essere regolata da standard esterni.

Shrek 2 non è un semplice seguito: è una riappropriazione semantica del cinema d’animazione. E il pubblico lo capisce, lo acclama, lo trasforma in culto.

La fine dell’innocenza animata

Con Shrek, l’animazione abbandona l’innocenza. Non nel senso della volgarità gratuita, ma nel rifiuto dell’idealismo acritico. Dopo di lui, Frozen può esistere senza principe salvatore. Ralph può essere un disadattato con il cuore spezzato. Encanto può esplorare il trauma generazionale.

Shrek rompe lo schema e ne crea uno nuovo: quello dell’anti-eroe come portavoce delle minoranze, dei marginali, dei non conformi. In un tempo che invocava autenticità, Shrek ha offerto un modello realistico, sporco, imperfetto. Ma assolutamente veritiero.

Non è un modello. È un diritto. Quello di esistere fuori norma, di amare senza permesso, di puzzare senza vergogna. In un mondo che pretende l’aderenza al cliché, Shrek ci ricorda che la diversità non è una deviazione. È una possibilità.