Nel cortometraggio Balentìa, diretto da Niccolò Lorini, in concorso al Figari International Short Film Fest, non assistiamo semplicemente a una storia di sogni e ostacoli. Bensì a una dichiarazione. Un passo dentro una battaglia che è ancora tutta da combattere. Perché “balentìa”, in sardo, non significa unicamente coraggio: è onore, dignità e valore. Un codice morale che non si eredita, ma si costruisce. E che, nel caso della protagonista, va difeso anche contro chi la ama.
Dal primo fotogramma, la protagonista corre. Ma non scappa. Insegue. Insegue qualcosa che ancora non ha un nome, ma che conosce già: è se stessa. E lo fa a testa alta, anche se intorno gli sguardi cercano solo di piegarla.
Essere ragazza, essere fantina
“Non ho mai visto una ragazza cavalcare così”
dice un bambino seduto, senza cavallo.
Una frase che suona leggera, ma che pesa. Perché contiene tutto lo stupore, il giudizio e l’ignoranza che una donna si trova addosso quando osa attraversare territori non pensati per lei.
In Balentìa, la protagonista non vuole essere simbolo. Non lotta per principio. Semplicemente, non ha alternativa. Vuole essere una fantina.

Nel dettaglio della sua stanza, su una parete, compare una foto in bianco e nero:
“Rompicollo – The first woman to ride the Palio di Siena, 1957.”
Un tributo a Rosanna Bonelli, detta “Rompicollo”, la prima e unica donna a correre il Palio di Siena. La protagonista la tiene lì non come un idolo da venerare, ma come una testimone da raccogliere. Non per emularla, bensì per continuare la corsa.
Il corpo che agisce, lo sguardo che limita
Il cortometraggio lavora sul linguaggio del corpo. La protagonista vive in una stanza che la rappresenta. Fuori da quella porta, però, la realtà si mostra per quello che è: un contesto in cui la sua passione viene ridicolizzata, ostacolata, messa in discussione.
“Non comprendi che è pericoloso? È una cosa da maschi, non da ragazze.”
A parlare è suo padre, figura che non protegge, ma reprime. Non è un antagonista nel senso classico, ma è l’espressione viva e inconsapevole di un patriarcato interiorizzato, dove l’amore passa attraverso il controllo e dove il sogno della figlia non è visto come una possibilità, ma come un errore da correggere. Chiedendole le chiavi, prova simbolicamente a toglierle il potere. Non per odio, ma per mancanza di visione. Come se l’unico modo per amarla fosse fermarla, spezzando il suo sogno.

Il cavallo come alleato, non strumento
Il rapporto con il cavallo è centrale. È simbiotico. Il cavallo non è mezzo, è specchio. È uno dei pochi personaggi che non giudica. Che non ha voce, ma ascolta. Che non impone, ma accompagna. Nel cuore della notte, è un bambino a rivelarle il segreto:
“Il segreto è la balentìa. Se ce l’hai, nessuno ti può fermare.”
Non è un incitamento epico, ma una verità sottovoce. La balentìa è quella forza che si manifesta nel momento in cui smetti di chiedere il permesso. E inizi a crederci davvero.
Un femminismo senza proclami, ma che arriva dritto
Nel momento in cui chiede al suo amico:
“Ma secondo te anche le ragazze possono fare le fantine?”
non cerca una lezione. Cerca conferma. Cerca alleanza. Perché il punto non è sentirsi dire “certo che sì”, ma sapere di non essere sole. Questo è il centro pulsante del film. Non la rivalsa. Non il traguardo. Ma la condivisione di uno spazio dove sentirsi possibili. Dove la balentìa, finalmente, non ha genere.