In questa intervista, Marco Tullio Giordana – protagonista di una delle masterclass centrali dell’edizione 2025 di Le Giornate della Luce – riflette sul suo rapporto con la fotografia cinematografica e sulla costruzione visiva e politica del suo film Pasolini, un delitto italiano. Un’occasione per tornare ad interrogarsi sul valore della luce, sull’assenza inquieta di Pasolini e sul potere civile del cinema.
Che tipo di “luce” vuole portare, parlando ai giovani cineasti di oggi? E cosa significa per lei riflettere sul cinema proprio qui, in un festival così attento alla fotografia e al lavoro invisibile dietro l’immagine?
Guardi, è un’occasione d’oro per me. Di solito, si parla di cinema in termini contenutistici, come se l’unica cosa importante in un film fosse – mi perdoni la parola, da usare fra virgolette – “il messaggio”. Ma come diceva Hitchcock:
“Se devo mandare un messaggio, vado all’ufficio postale”
Un film è una somma di significati, certo, ma anche di significanti. E in questo, l’immagine è forse l’elemento più importante.
Partecipare ad un festival in cui l’immagine e la luce sono centrali è per me molto interessante. Perché normalmente si trascura proprio questa dimensione: si parla sempre di ciò che un film racconta, e mai abbastanza di come lo fa. Invece, la fotografia e la scenografia – che per me sono inscindibili – determinano il senso profondo di un’opera.
È uno dei pochi luoghi in cui si può ancora parlare di cinema in quanto tale, e non solo di ideologia. E l’ideologia, glielo dico sinceramente, è una cosa che detesto.

Nel suo film Pasolini, un delitto italiano, il lavoro sulla luce è sottratto e realistico. In un festival che celebra chi lavora con la luce, cosa può raccontarci della collaborazione con Franco Lecca e sul valore della luce nel trattare una verità ambigua e sfuggente come quella del delitto Pasolini?
Il lavoro con Franco Lecca è stato fondamentale. È un amico carissimo, con cui avevo già collaborato nell’episodio che avevo diretto per La domenica specialmente, tratto da racconti di Tonino Guerra.
Nel film su Pasolini c’erano due esigenze visive: da un lato, la parte realistica legata all’indagine, al processo, agli interrogatori – tutta ambientata in una dimensione quasi cronachistica; dall’altro, le sequenze che immaginano ciò che potrebbe essere accaduto la notte dell’omicidio. Quelle scene notturne non potevano avere lo stesso impianto realistico. Serviva un’altra chiave, più evocativa, più “in ombra”.
È stata una sfida per Franco, ma ha fatto un lavoro che ancora oggi mi colpisce. Trovare un equilibrio tra questi due registri non era semplice, eppure ci siamo riusciti. Sono molto riconoscente per il suo contributo.

Lei ha scelto un approccio rigoroso, quasi giudiziario, lasciando però emergere una visione civile e morale. Ritiene che oggi, in un’epoca di revisionismi e fake news, il cinema possa ancora svolgere un ruolo di controinchiesta, come ha fatto il suo film nel 1995?
La ringrazio, è una bellissima domanda. Io credo che il cinema sia, oggi più che mai, l’ultimo modo per opporsi alla generale omologazione dell’informazione. Un’informazione che è spesso derivata dal sentito dire, da materiali già “masticati”, che non aggiungono nulla. E lo dico consapevole che ci sono eccezioni, certo, ma in generale ciò che arriva dal teleschermo raramente è veramente attendibile.
Questo perché l’informazione è spesso condizionata dalle proprietà, che ne orientano l’interpretazione. Il cinema è invece più libero, meno soggetto a padroni. Ed è proprio questa libertà – legata alla soggettività di chi lo fa – che gli consente ancora di portare alla luce ciò che altrimenti resterebbe sepolto o ripetuto all’infinito.
Il cinema conserva uno spazio per l’atto soggettivo. E la soggettività è fondamentale: perché non possiamo accettare sempre un presunto “oggettivo” che, spesso, è solo una forma di falsa coscienza.

Pasolini viene raccontato attraverso la sua assenza, come una presenza inquieta che aleggia ovunque. È stato difficile tenere in equilibrio la figura pubblica, intellettuale scomoda e simbolo, con la necessità narrativa di non mitizzare o assolvere?
Sì, è stato difficile. Anche perché il film fu concepito tra il ’92 e il ’94. Ebbe due false partenze: iniziammo a prepararlo due volte senza riuscire a ottenere i fondi necessari. Solo alla terza volta, finalmente, il progetto andò in porto.
Quando il film uscì, nel 1995, erano passati vent’anni dalla morte di Pasolini. E Pasolini non era ancora così “di moda” come lo sarebbe diventato poi. Era una figura ancora sulfurea, oscura, e molti mantenevano su di lui un pregiudizio moralistico.
Inizialmente avevamo pensato di raccontarne la vita, ma poi – insieme a Stefano Rulli e Sandro Petraglia, che hanno scritto il film con me – abbiamo deciso di concentrarci sulla sua morte. Perché raccontare la reazione del Paese a quell’omicidio ci sembrava ancora più rivelatore. Quello che ci colpiva era che perfino i suoi avversari, se non addirittura i suoi nemici, si rendevano conto che avevano perso una figura indispensabile.
Oggi è un fatto riconosciuto: Pasolini è diventato un punto di riferimento. Ma allora no, non era affatto così chiaro. E quindi sì, trovare l’equilibrio tra l’evitare un santino e non fare accuse infondate è stato complesso.
Il film è pieno di allusioni, ma penso che sia ancora oggi assolutamente attendibile in tutto ciò che mostra. Abbiamo esaminato gli atti giudiziari per due, tre anni. È un’opera rigorosa, che ha cercato di illuminare con rispetto e responsabilità una zona ancora buia della nostra storia.