
Dopo l’interdizione dell’annata 2012, finalmente questo novembre il China Independent Film Festival è tornato ad ospitare i migliori prodotti del cinema indipendente cinese: dai documentari agli sperimentali, dai cortometraggi ai film pronti per il pubblico dei cinema. Un cinema, che, come si può immaginare, per gli artisti cinesi è difficile da raggiungere, a meno che essi non siano nelle grazie del Partito o del cinemabiz (non che sia tanto più facile per gli Italiani, ma chiaramente la variabile censura fa una certa differenza).
Ecco che a Nanchino è stato presentato un programma parziale, per non incorrere nell’ira funesta del Governo e avere l’opportunità di proiettare il più possibile: infatti, l’offerta quest’anno è stata spalmata su tre location per rendere più rarefatta e incatturabile la schiera di organizzatori, registi e pubblico coinvolti. Ecco che tra Dalian, Xiamen e Nanchino, il gruppo di Shen Xiaoping, Cao Kai, Han Linlin, Wang Xiaolu, Zhang Xianmin, Zeng Yunhui ha tirato fuori la decima edizione del CIFF, uno degli appuntamenti più importanti per il cinema esordiente Cinese.
Infatti, dopo le ultime vicende che, a cavallo della elezione di Xi Jinping, avevano visto interrotto il Beijing Independent Film Festival, con tanto di corrente elettrica staccata, pareva che la realizzazione della tanto attesa decima edizione fosse piuttosto impossibile. Soprattutto perché, come Shen Xiaoping mi ha raccontato in un’atmosfera informale, il sabato sera precedente le premiazioni, la macchina censoria aveva già agito nel 2012: con telefonate tattiche arrivate da nonsisabenedove, tutte quelle realtà che avevano dato la disponibilità ad ospitare il CIFF numero 9 hanno ritrattato, a pochissimi giorni dall’esordio della manifestazione. Fatta terra bruciata attorno, i ragazzi si sono trovati seduti per terra, senza alcuna sala che li ospitasse. L’annuncio stesso dell’interruzione è arrivato a ridosso e solo via social network, lasciando tutti impietriti e calando un velo di mistero sulle cause: un segreto di Pulcinella insomma. Non solo la nona edizione del festival è stata bandita, ma anche l’evento collaterale di EXIN, Asian Experimental Film and Video Festival, che a quel tempo coinvolgeva esperti da tutta l’Asia, ne ha risentito.
Shen Xiaoping in realtà, sebbene il festival abbia accusato il colpo, soprattutto a livello di frequentazione da parte del pubblico, mi ha mostrato come la lotta non si è mai fermata in tutto questo tempo: come se l’edizione numero 9 volesse essere solo un trampolino per saltare più in alto con la puntata successiva, la qual cosa ha ovviamente allertato i piani alti che si erano già ben resi conto del prestigio che il Festival aveva assunto nel corso della sua carriera. Dividere quindi le proiezioni su tre città è stato quasi una necessità; e soprattutto, allontanare i documentari da Nanchino, la sede più sensibile, che non avrebbe retto (metaforicamente parlando) alla proiezioni di prodotti così pericolosi. Così, il Festival si è arrangiato come poteva: uno schermo costretto, svariati problemi tecnici, l’assenza di diversi registi e il pubblico diradato. Malgrado ciò, malgrado una parte degli sforzi per rendere il CIFF quel grande evento che era diventato, siano stati vanificati dal potere centralizzato, niente si è fermato. O meglio, la lotta è ripresa.

I prodotti proiettati a Nanchino sono stati i dieci migliori lungometraggi e i tre cortometraggi finalisti; grande è stata la sorpresa nell’apprezzare i tre lavori brevi come tra i meglio bilanciati, tecnicamente più pronti e produttivamente più equilibrati: Butter Lamp di Hu Wei, The hammer and the sickle are sleeping di Geng Jun e Downstream di Zune Kwok.
Il primo sta girando da un anno in lungo e in largo per l’Europa e non solo: dopo la presentazione a Cannes, ha vinto il nutrito premio dell’Internationale Kurzfilmtage Winterthur, il Raindance, Chicago ed è passato pure per Milano ad ottobre. Offre un bello spunto sul Tibet che, se fosse mai stato pensato in terra cinese, non sarebbe diventato quello che è oggi: Hu Wei, il regista, ha studiato e vive attualmente a Parigi, dove ha trovato i fondi necessari per trasmettere la sua riflessione nonché velata critica, sul soffocamento imposto dal governo di Pechino al popolo tibetano. Il secondo, è uno dei prodotti più geniali e dall’umorismo nero più affilato che si sia visto, con una speciale cognizione tecnica che ha reso i freddi ambienti del nord cinese, una distesa ovattata e luminosa di neve ghiacciata.
La differenza notata tra questi corti vincitori e alcuni dei lungometraggi è stata tale da far riflettere sulle condizioni che soggiaciono alla produzione cinematografica di questo Paese. La limitata libertà espressiva ha indotto la costruzione di uno zoccolo duro e combattivo di professionisti e artisti underground, che spesso collaborano in modalità coproduttiva perché la disponibilità economica è davvero risicata. Tuttavia, sono talmente numerosi i contenuti da trattare, le tematiche ancora inesplorate, i problemi mai rivelati, che la necessità espressiva è diventata ora un’urgenza, e una sorta di nuovo comunismo artistico induce linfa vitale a tutta la cinematografia indipendente.
Diverso è invece il caso delle produzioni che arrivano da Hong Kong dove, per disponibilità economica e libertà espressiva, la musica è ben diversa. Tuttavia, quello che gli stessi autori hongkongesi invidiano e che è evidente dalle opere visionate, è che non ci sia in questa parte di Cina la medesima necessità di parlare dei problemi, come invece è per la Cina continentale; perciò questo cinema si è dimostrato, a festival concluso, ben più spensierato, meno votato alla discussione, ma più alla speculazione artistica oppure ai moti dell’animo. Da HK, il CIFF ha raccolto Fig di Vincent Chui e Distant di Yang Zhengfan (già passato a Locarno, che è la sede ideale per un prodotto così delicato).
Come hanno ovviato gli autori cinesi al bisogno di raccontare temi scottanti in un modo che potesse essere tollerato? Evitando una certa categoria di temi (l’espropriazione delle terre, il Tibet, i petitioners che si battono per i diritti civili…), sui quali proprio non c’è possibilità di scendere a compromessi, e restringendo il fuoco sulle microstorie di alcuni Sig. Nessuno, che tuttavia si fanno portavoce, di volta in volta, di situazioni problematiche e gravità contingenti la Cina di oggi.
Ecco che il tema più gettonato era quello del bullismo e delle organizzazioni illegali, corrotte, che operano a livello locale offrendo ricchi spunti da gangster movie. Sebbene ci siano dei cattivi che se la prendono con i più deboli, gli autori rintracciano le radici di questa ingiustizia non nella prepotenza tout court, bensì nel valore del denaro: un Dio che pare aver corrotto l’animo così in profondità, da educare a spietati sicari. Ci sono poi gli eroi buoni (o meglio, giustificati), per i quali è la contingenza ad indurre sulla cattiva strada: è l’esempio dei due film meglio riusciti del programma del CIFF.
Si tratta di Burned wings di Zheng Kuo e di Today my mother will get married di Jin Ye.
Il primo è un esilarante gangster movie imbrattato di principi incarnati dall’eroe, l’attore Yang Shicong, che è a capo di un manipolo di ragazzacci in cerca di un’attività redditizia; un po’ stoltamente questi finiscono coinvolto nei brutti affari dei poliziotti corrotti e degli affamati esecutori immobiliari che cacciano gli ultimi abitanti delle case chiodo (quelle che resistono allo sfratto imposto dal governo). La vicenda finisce in un drammatico eccidio, ma non senza lasciare al pubblico momenti di altissima cinematografia gangsta-slapstick, nel picco di un quanto mai realistico inseguimento in una SPA, dentro e fuori dall’acqua termale, per ritrovarsi a correre spudoratamente nel traffico col sedere all’aria. Anche l’opera di Jin Ye ci parla di un gruppo di teppistelli, ma questi hanno 15 anni e le loro malefatte si indirizzano tutte a danno del patrigno di uno dei tre: in realtà il loro è un grido di richiesta d’attenzione, perché anche qui denaro e status sociale hanno preso il posto degli amori della vita, e i figli restano trascurati ai bordi delle strade, derubando e spendendo i pomeriggi appresso ai videogiochi online.
Più visionarie le opere Distant, sopra citata, e Emperor visits the hell, di Li Luo, il quale ha trionfato al CIFF. Il primo è un lungo lavoro di indagine statica realizzato tramite 13 piani sequenza che raccontano scorci cinesi e che abbracciano molte delle condizioni problematiche e precarie di questa società. Il secondo, è una interessante trasposizione letteraria ambientata però ai giorni nostri, del viaggio dell’imperatore Lhi Shimin nell’oltretomba, per riscattare alcune malefatte commesse. Disegnato in bianco e nero e essenziale quasi come una ambientazione del Von Trier di Dogville, tra una risata a denti stretti e l’altra si parla di un passato insospettabile per commentare vizi e debolezze dei giorni nostri.
Al di là dell’offerta specifica di questa edizione del China Independent Film Festival, l’evento è qualcosa che va ricordato e la cui caparbietà va diffusa appunto per l’intenzione che lo muove. Seduti al tavolo con queste persone, che raccontano di quello che fanno con tanta serenità, pare che i pericoli siano lontani. Eppure, la loro attività è molto più esposta di quanto si creda, molto più in equilibrio funambolico, a tal punto che da un momento all’altro si potrebbe pestare il piede sbagliato, pronunciare una parola di troppo, infastidire il funzionario irascibile. Non c’è alcuna garanzia che il prossimo anno potremo rivedere quelle facce, che potremmo visionare nuovi film; non c’è altresì alcuna garanzia che questi possano contare nuovamente sull’appoggio di chi li ha ospitati e sostenuti questa volta. E più ancora che per i lungometraggi, per i documentari, che permettono alla gente comune di esprimersi e all’evidenza di essere rappresentata. Non esiste peggior rischio per il potere centrale.
Rita Andreetti