Chi ha avuto la possibilità di passare per il Padiglione Centrale della Biennale Arte 2024 o di assistere alla passata edizione dell’International Film Festival Rotterdam conosce già la piccola perla video-saggistica che è Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship.
Presente nella sezione Frontiere italiane della terza edizione di Unarchive Found Footage Fest, l’originaria video istallazione di Alessandra Ferrini, inserita nella sala cinematografica, è una dissezione materiale sui rapporti di potere geometrici tanto quanto malleabili del passato (e presente) coloniale italiano.

L’era d’oro del videosaggio
Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship si inserisce all’interno di una fruttuosa contaminazione che il video-saggio offre, tra la ricerca come esercizio artistico, il lavoro d’archivio e la pratica audiovisiva. Un genere in visibile evoluzione che amplifica la cassa di risonanza non solo del dialogo artistico e accademico ma anche dei confini del genere documentario.
Ferrini disseziona due iconografie-evento e due figure che hanno modellato il nostro tempo e che ancora, probabilmente, non abbiamo somatizzato. Le personalità di Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi non hanno solo modificato la recezione dell’informazione politica negli anni 2000 ma diventano nel cortometraggio simboli di un debito storico con il colonialismo che il nostro paese non ha mai pagato.
Gaddafi in Rome mette in scena il metodo stesso della sua costruzione narrativa: la ricerca bibliografica, l’analisi d’archivio, la raccolta di dati e di materiali visivi. L’immaginario disvelato viene aperto e analizzato con gesti chirurgici mentre l’immagine si muove sotto ad una materialità liquida: le onde mediterranee come spettro geografico del racconto. Il voice-over di Ferrini ci guida nel processo, costruendo un progetto a metà tra innovazione della formula e tradizione del genere.
The past has indeed been our present all along
La storia si ripete, o forse il passato non ci ha mai davvero lasciati.
Gaddafi in Rome sviscera – visivamente e metaforicamente – le radici storiche del Trattato di Bengasi tra Italia e Libia partendo da due incontri, fisici e ideologici.
Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi si stringono la mano per la prima volta nel 2009, quando il leader libico è in visita ufficiale a Roma. Sull’uniforme di quest’ultimo l’immagine di un altro incontro. La cattura di Omar al-Mukhtar, eroe della resistenza libica contro l’occupazione italiana, giustiziato nel 1931. La questione coloniale ritorna sulle coste italiane come la sabbia trascinata dalla marea.
Ferrani si focalizza su un’iconografia della ripetizione, un eterno ritorno di un passato violento che si ricopre di nuove vesti. L’immagine si moltiplica, si reinserisce nel discorso – e con essa ritorna anche la domanda su quanto realmente l’Italia abbia fatto i conti con il proprio ruolo coloniale.
L’accordo di cooperazione tra i due paesi lascia un sentimento di inquietudine mentre esploriamo attraverso le assonanze e le menzogne di due leader manieristici che hanno delineato l’idea di culto della persona nel panorama politico contemporaneo.
Il trattato del 2008 non è solo un documento diplomatico: è un atto simbolico, una strategia geopolitica, un nodo irrisolto che ancora oggi definisce le politiche italiane sull’immigrazione. Non si può voltare pagina se la pagina non è mai stata letta.
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