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‘Love Death & Robots’, la stanchezza della macchina

Torna l’animazione d’autore, ma manca l’estro delle prime stagioni: "Love, Death & Robots" rallenta il passo e guarda troppo al passato.

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La quarta stagione di Love, Death & Robots, gioiello dell’animazione seriale ideato da Tim Miller (Deadpool), è finalmente disponibile su Netflix.

Fin dal suo esordio, la serie si è imposta per l’incredibile varietà di generi affrontati, dalla fantascienza all’horror, dalla commedia alla filosofia esistenziale, e per l’approccio innovativo e sorprendentemente eclettico alle tecniche di animazione. Ogni episodio è un universo a sé: studi creativi da tutto il mondo si sono cimentati nella realizzazione di cortometraggi che spaziano dallo stile 2D più tradizionale alla CGI iperrealistica, fino a soluzioni ibride come il rotoscope, con risultati visivamente impressionanti.

Tra gli episodi più memorabili, ricordiamo la cruda delicatezza di Buona caccia (1×10), l’affascinante danza di Jibaro (3×09), la sontuosità visiva de La testimone (1×08); o ancora la brutalità de Il vantaggio di Sonnie (1×04), la profonda introspezione di Zima Blue (1×18) o la divertente genialità de La notte dei minimorti (3×04).

In definitiva, Love, Death & Robots ha saputo sorprendere il pubblico episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, creando grandi aspettative per questo attesissimo quarto capitolo.

Tuttavia, nonostante l’ormai consolidata eccellenza nell’animazione e la presenza, ormai iconica, del mondo felino, questa nuova stagione non riesce a raggiungere l’impatto delle precedenti.

Scopriamo perché.

Mi ricorda qualcosa…

Ciò che salta subito all’occhio di uno spettatore attento e appassionato, è che, in generale, gli episodi di Love, Death & Robots 4 richiamano un po’ troppo le glorie delle precedenti stagioni.

Non parliamo ovviamente solo dei consapevoli e spiritosi revival come Mini incontri ravvicinati del terzo tipo, dove è l’universo fantascientifico, stavolta, a essere rimpicciolito, ma di episodi che, per stile, tematiche o universo narrativo, non possiedono una vera e propria dimensione personale, suggerendo allo spettatore una generale mancanza di idee veramente innovative.

Nonostante arene suggestive e alcune chicche di umorismo (come il nono episodio, Il complotto dei dispositivi intelligenti), la stagione si avvia lentamente verso una progressiva, forse futura stanchezza.

Stile vs Sceneggiatura 1-0

Nei suoi episodi più memorabili, Love, Death & Robots ha saputo offrire un perfetto equilibrio tra forma e contenuto, fondendo animazione d’eccellenza e narrazione avvincente. Il titolo stesso della serie richiama le molteplici declinazioni dei temi di amore, morte e tecnologia, che trovavano espressione in storie capaci di sorprendere tanto per la loro profondità quanto per l’inventiva visiva.

Una fusione tra sceneggiatura e immagine, tra confezione e contenuto, in cui i confini si assottigliavano e la performance visiva era lo strumento perfetto per raccontare quella determinata storia.

In questa quarta stagione, eccezion fatta per episodi come Spider Rose Poiché può strisciare, la sceneggiatura risulta spesso debole, quasi abbozzata, a fronte di una promessa molto più succulenta. Golgota, per esempio, è forse l’episodio in cui più di tutti si avverte il mancato approfondimento della narrazione.

Probabilmente, e comprensibilmente, sarà impossibile d’ora in avanti riproporre l’effetto spiazzante della prima stagione; siamo ormai abituati a ciò che Love, Death & Robots rappresenta, e la curiosità nello scoprire in quali universi ci condurrà non svanirà tanto presto.

Eppure, nonostante l’immancabile presenza dell’iconico mondo felino, la quarta stagione della serie di Miller si sbilancia a favore dell’impatto visivo, come dimostra il primo episodio, Can’t Stop, in cui veniamo catapultati in un concerto dei Red Hot Chili Peppers unico nel suo genere.

La stanchezza della macchina

Sempre più spesso nel cinema e nella serialità, lo spettatore più attento e sensibile lamenta una progressiva perdita di forza nella scrittura, come se la sceneggiatura fosse diventata un elemento marginale, quasi accessorio, all’interno di un’opera visiva.

Chissà poi perché, dal momento che è stato ampiamente dimostrato che raccontare, in pochi minuti, una storia solida ed emozionante non solo è possibile, ma può essere potenziato proprio dall’uso virtuoso del connubio tra struttura narrativa ed estetica visiva. Love, Death & Robots stessa è nata come celebrazione di questa alchimia tra forma e contenuto, tra arte visiva e profondità concettuale.

Insomma, nulla di nuovo.

Ciò che invece emerge come una vera e propria frattura più profonda con le precedenti stagioni, è la progressiva scomparsa di quelle riflessioni profonde e universali veicolate proprio attraverso il tema della “macchina”. Un’assenza che pesa, perché erano proprio le intelligenze artificiali e i robot ad aver reso unici molti degli episodi più riusciti.

Nelle stagioni precedenti, la serie sapeva mettere in scena con sorprendente lucidità il rapporto tra umano e tecnologico, tra carne e metallo, tra coscienza e algoritmo. Forse non in tutti i corti, ma in buona parte.

Zima Blue, uno degli episodi più amati e filosoficamente intensi, ne è l’emblema: un androide che, dopo aver superato i limiti dell’ego creativo, compie un ritorno alle origini per riscoprire l’essenza della propria identità. In Tre robot, la tecnologia prendeva parola per osservare, con uno sguardo ironico e disilluso, i resti della civiltà umana. O ancora, in Sciame si indagava il confine tra intelligenza collettiva e dominio culturale.

Nella quarta stagione, invece, questa tensione si allenta. Le intelligenze artificiali e l’interrogazione sul post-umano, cedono il passo in favore di un immaginario più libero, ma anche più frammentario. Non è un vero e proprio “tradimento” del concept originario, ma una deviazione.

Deviazione che, unitamente all’ultima stagione di Black Mirror, fa emergere una riflessione: forse abbiamo smesso di interrogarci su possibili scenari futuri, perché la vera angoscia è rappresentata dal presente. Ci siamo dentro fino al collo?

Attendiamo altri mondi

In conclusione, la quarta stagione di Love, Death & Robots conferma l’altissima qualità tecnica a cui la serie ci ha abituati, ma fatica a rinnovare davvero la propria formula.

Nonostante alcuni episodi riescano ancora a sorprendere, nel complesso si avverte una certa stanchezza narrativa, una tendenza a guardare al passato più che a esplorare nuove possibilità.

Una rinuncia, in parte, a quel coraggio sperimentale che l’aveva resa una perla rara nel panorama seriale.

Speriamo quindi che Love, Death & Robots possa ritrovare, in un’eventuale quinta stagione, quello spirito pionieristico capace di unire visione e racconto in modo davvero dirompente.

Perché la creatura multiforme di Miller non ha mai smesso di promettere mondi straordinari, ora deve solo tornare a raccontarli come sa.