Prima di tutto è stato presentato nella sezione Fuori Concorso/Italian Spot al Lovers Film Festival. Il documentario racconta la storia di Marco e Giampietro che, grazie all’aiuto di due donne speciali, hanno potuto coronare il loro sogno di creare una famiglia. Questo film è anche un viaggio, non solo fisico, verso l’America e la conoscenza di una mamma donatrice e una surrogata, ma anche verso un futuro tutto da costruire, con grande amore e voglia di mettersi in discussione.
L’ipocrita tesi dello sfruttamento
A prendere la parola in sala, prima della proiezione del film, è stata Vladimir Luxuria, direttrice artistica del Lovers Film Festival. Al suo fianco Giampietro, Marco e Cynthia Kruk, mamma gestante di due gemelli, che oggi hanno 15 anni. É stata posta particolare attenzione ed enfasi sul tema del presunto sfruttamento a cui queste donne andrebbero incontro nel generare figli che non potranno mai crescere loro. A prendere la parola sul tema è stata la stessa Cynthia, che ha chiarito di non essersi mai sentita sfruttata, ma al contrario di aver preso questa decisione, quella di essere una mamma gestante per altri, per amore.
Non solo. Lei di mestiere fa la terapeuta e proprio per questo motivo, forse più di altri, è abituata a venire a contatto con storie di dolore, di frustrazione, di difficoltà. Insomma, ha allenato la sua empatia nel corso degli anni. La scelta di essere una gestante per altri, ha spiegato, è arrivata quando aveva già una famiglia. Ed ha voluto farlo – con il pieno supporto del marito – per essere un esempio “di amore e compassione verso i miei figli”. Parole che hanno commosso il pubblico e che davvero niente hanno a che fare con la realtà dello sfruttamento, per quanto – anche grazie ad abili propagande di certe parti politiche – si è portati immediatamente a pensare che ci sia sempre un nemico o un motivo altro per cui le persone scelgono di fare qualcosa, specie se è qualcosa di buono.
“La società italiana è pronta, forse lo Stato un po’ meno”, hanno spiegato Marco e Giampietro in sala, in riferimento all’accettazione, specie di tipo giuridico (quindi anche per tutto ciò che concerne diritti) delle famiglie omogenitoriali. Non è facile essere “sorvegliati speciali”, hanno aggiunto, sempre con gli occhi puntati addosso, da parte di molteplici figure, impegnate a interessarsi dell’effettivo benessere psicofisico dei loro figli, seppur nati dall’amore (un grande amore), circondati da diverse persone che si prendono cura di loro, e infine desiderati più che mai.
Un viaggio non in solitaria
Prima di tutto è un viaggio, come si è detto, verso la possibilità e il desiderio di costruzione di una propria famiglia. Non solo, è anche il viaggio della creazione di consapevolezza. E da ultimo, ma non meno importante, è il viaggio di due donne, che hanno reso possibile la realizzazione di questo desiderio. Tutti i personaggi di questo documentario hanno bisogno di scoprire se stessi, prima di accogliere i due bambini. In diversi modi, ognuno di loro necessita di confrontarsi con se stesso, con un’analisi così approfondita e intensa che forse poche coppie eterosessuali compiono prima di procreare.
Se la preoccupazione principale di Cynthia è quella di non rimanere sola in questo viaggio, oltre ad assicurarsi di instaurare un buon rapporto con Marco e Giampietro, e che questi ultimi creino una relazione di affetto vero con i suoi di figli, anche gli altri personaggi sono in grado di esprimere i loro bisogni. In un più generale contesto di ascolto condiviso e ampio, Marco e Giampietro esprimono le loro paure, specie quella di non essere all’altezza. Compaiono anche altre figure, che sono le famiglie dei futuri genitori. Non tutti riescono – e questo è comprensibile, per età, background, vissuti differenti – a vedere l’eccezionalità come opportunità di crescita, e comprendere la diversità nella sua sfumatura di non pericolo.
Anche in questo caso, a colpire è il fatto che la discussione sia possibile, perché i toni di tutti – pur nell’incomprensione e nella distanza – rimangono educati e rispettosi. Molto diversamente dai toni provocatori e maleducati – tipici di chi non ha argomenti – di onorevoli e politici ripresi non nei loro momenti migliori, in spezzoni inseriti nel documentario.
Famiglia biologica e famiglia tradizionale
Prima di tutto è un documentario che sfida le convenzioni semplicemente mostrando un altro modo, un’altra via, per creare una famiglia, diversa da quella che la maggior parte di noi conosce e che ha sperimentato. É normale provare paura e spavento davanti a qualcosa di nuovo, quindi irrigidirsi, tornando sulle proprie vecchie convinzioni, che sono comunque più sicure rispetto a una novità. Eppure Marco e Giampietro stanno provando a dire altro al pubblico: dove c’è amore, rispetto e ascolto, c’è famiglia.
La propria famiglia non è solo quella biologica, cresce quando s’incontrano nuove persone e nuovi amici
Ed ancora, sulle definizioni che ingabbiano e restringono il campo sconfinato dell’amore, i due genitori hanno le idee molto chiare:
Siamo una nuova famiglia, dove i rapporti sono ancora in via di definizione
Quello che i protagonisti sembrano suggerire è proprio che non detengono sicurezze, precise risposte, visioni chiare. Stanno imparando, a stare in relazione, ad essere genitori, ad amare, proprio come chiunque altro. Dietro una scelta ponderata di diventare una famiglia, vi è tutta la componente umana del dubbio, della paura e della fragilità. In un documentario che è di fatto una lettera aperta ai propri bambini (chiamati all’inizio affettuosamente A e B, perché non si conosceva ancora il loro sesso), si intuisce, prima di tutto, un’aspetto fondamentale. Che emerge dal primo commovente sguardo tra i piccoli e i loro genitori: non è forse l’amore che crea somiglianze e vicinanze? Figlie, queste, dei desideri, delle paure e delle relazioni proprie del cammino dei genitori per arrivare fino a quel momento, che si riflettono da ultimo in quei piccoli esseri?
Riflessione collaterale: il ruolo del femminile
Prima di tutto, oltre a sollevare riflessioni e sollecitare attenzione su tematiche diverse, di cui sopra, porta con sé anche una riflessione a latere. Quella del ruolo della donna nel processo della pratica di gestazione per altri. Si è parlato di presunto sfruttamento, e si parla anche della “lesione della dignità della donna”, in quest’atto. Una convinzione ancora molto radicata, che chiama in causa l’onore stesso della donna, altro concetto per cui la subalternità della donna rispetto all’uomo è stata legittimata per secoli, oltre che esercitata, con l’uso della violenza.
Tutte queste visioni non tengono conto di una aspetto: la libertà decisionale della donna. La sorpassano, dimenticano. Come se non esistesse, o non si fosse lottato per questo.
Un’osservazione particolarmente pertinente è stata fatta in sala, ovvero che se si parte dall’assunto per il quale nella pratica di gestazione per altri, la donna venga per forza sfruttata, perché non si pensa che quella donna possa semplicemente rifiutarsi? E soprattutto, perché quando la diretta interessata spiega di non sentirsi in alcun modo sfruttata, non si riesce a riconoscerle, questa personale decisione? Alla base vi è dunque anche il mancato riconoscimento della capacità decisionale della donna in quanto tale, rimandando ancora tale figura unicamente a un contesto di cura, unico ambito in cui può esercitare la propria essenza. Si è quindi lontani – e il film sottolinea quest’aspetto – dal comprendere l’immensa solidarietà umana che si cela dietro scelte, quando e se libere, di questo tipo. Scelte che non riducono in alcun modo la donna a oggetto, quanto invece ne esaltano la sua magistrale soggettività.