Connect with us

Florence Queer Festival

FQF, l’intervista al direttivo del festival queer: tra storytelling e rivendicazione di genere

22 anni di Festival di cinema Queer a Firenze; tra rappresentazione, resistenza e animazione. Di seguito riportate, le tre interviste alle direttrici del festival, Elena Magini e Barbara Caponi, e al curatore della sezione "Queer Animation", Giacomo Guccinelli

Pubblicato

il

Florence Queer Festival

La ventiduesima edizione del Florence Queer Festival quest’anno ha avuto luogo in concomitanza con alcune delle ricorrenze più sentite dalla comunità LGBTQI+: il Trans Day of Remembrance, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la Giornata mondiale contro l’AIDS. Queste celebrazioni, quando non strumentalizzate o avvertite come fini a se stesse, ci aiutano a ricordare, a ritrovarsi nelle piazze, a dare fiato alla rabbia, alle rivendicazioni, alla memoria.

Il festival si è concluso domenica 1 dicembre, decretando i vincitori delle categorie in concorso. Ne ha parlato l’articolo di Anna Maraner sul nostro magazine.

Anche per questa edizione non sono mancate le collaborazioni con le realtà formative del territorio: oltre a quella con lo IED – Istituto Europeo di Design, quest’anno si aggiunge quella con l’Accademia di Belle Arti e con l’Istituto Europeo di Firenze: un modo per il festival di uscire dai propri spazi, coinvolgere diverse soggettività, fare comunità.

Nella cornice della parola “Comunità” abbiamo intervistato le direttrici del festival Elena Magini e Barbara Caponi, oltre al curatore della speciale sezione “Queer Animation“, Giacomo Guccinelli.

Raccontare il festival

Quanto è importante, ai fini della rappresentazione, avere un festival del cinema come il Florence Queer Festival?

Magini: “È fondamentale. Il potersi riconoscere in storie e narrazioni permette di abitare il mondo in un modo diverso. In qualche modo sentirsi rappresentati permette di rompere gli stigmi e le barriere, normalizzare e sentirsi accettati. Tutto questo lo facciamo tramite un medium specifico. Possono essere molteplici i media con cui questa cosa avviene. Questo è un medium tra gli altri piuttosto diretto e quindi fruibile da una molteplicità di persone.”

Caponi: “E poi forse è importante un po’ perché è uno spazio dove la comunità è attore protagonista, nel senso che è organizzato dalla comunità, per la comunità. Ci vede coinvolte come persone nell’organizzazione, nella ricerca, nel pensiero e nella costruzione di un’idea di percorso e di narrazione attraverso l’audiovisivo e non solo. E lo facciamo anche attraverso la costruzione di relazioni, quindi anche uno spazio di alleanze di esistenza e di resistenza. È importante riuscire a dialogare con un po’ con la pluralità delle parti, che è sicuramente un qualcosa che rende il progetto unico. E quindi anche un’esperienza, non per chi la fa ma per chi partecipa; che è chiamato anche a essere uno spettatore attivo. Il dialogo col pubblico è continuo, non solo nelle presentazioni di quello che vediamo in sala ma anche attraverso gli eventi off che facciamo. Le presentazioni, i focus e le masterclass… uno scambio tra chi costruisce il festival e chi partecipa. E poi occupa uno spazio… insomma occupare spazi, prendere parola. È importante anche per essere sempre contemporanei. E ovviamente non lasciare spazi vuoti, che possono essere sempre riempiti da pensieri che non ci rappresentano.”

E come sono stati selezionati i film del Festival? C’è un fil rouge, oltre ovviamente la queerness e il female gaze?

Magini: “Sì, assolutamente. Il festival quest’anno si inserisce nei 50 giorni di cinema a Firenze. Capita a cavallo di alcune giornate rappresentative per la comunità, a partire da TDOR (Transgender Day Of Remembrance, ndr). Passa poi per il 25 novembre e arriva al 1 dicembre che è la giornata internazionale contro l’AIDS. Quindi abbiamo un po’ cavalcato queste giornate, anche ritornando a quello che si diceva sulla questione della rappresentazione. Molto spesso queste queste piazze sono abitate da persone che prendono la parola in maniera vuota. Sono comunque delle giornate strumentalizzate. E quindi l’idea era proprio quella di riappropriarsi di queste celebrazioni in un modo che potesse essere nostro. E quindi la tematica della visibilità trans, così come la questione dell’HIV… ci sono sembrati due filoni a cui in qualche modo appoggiarsi.

Il processo di selezione è molto impegnativo. Cerchiamo di condividerlo con le persone che fanno parte dell’associazione e del gruppo di lavoro del FQF. È un processo che dura molti mesi. Ci riuniamo, cerchiamo di capire che tipologia di film ci può interessare. Anche rispetto ad altri festival, altre manifestazioni internazionali: che cosa è passato, che cosa è stato prodotto. Poi li vediamo tutti, quindi è un lavoro piuttosto lungo. Su questo, poi, cerchiamo di costruire una narrazione che possa avere un filo logico.”

Animazione e necessità

Questo è il terzo anno consecutivo che esiste la sezione “Queer Animation”. Come è nata la necessità di avere una sezione del festival dedicata all’animazione, e perché?

Caponi: “È nata semplicemente, anche se poi non è semplice… nella dinamica della rete, quindi delle relazioni e delle collaborazioni. Nello specifico attraverso la conoscenza di Giacomo Guccinelli, persona del movimento attivista e amico con cui avevamo già relazionato attraverso l’Accademia. Il Festival cerca di rivolgersi anche agli spazi di educazione, di formazione… lo ha fatto anche con l’Accademia TheSign e lo ha fatto approfittando proprio di questo tipo di linguaggio (l’animazione, ndr). Ed è anche un mondo interessante, in quanto offre degli spunti che non sono scontati. Spesso anche attraverso le riflessioni rispetto ai diversi tipi di adattamenti da produzioni internazionali. Quindi anche con uno sguardo sulle grandi produzioni come la Disney. L’animazione è qualcosa che coinvolge anche una fascia di età più adolescenziale, più giovane, ma che effettivamente poi dialoga con un mondo anche adulto. Gli appassionati di animazione forse sono veramente trasversali a livello generazionale. Però era anche un linguaggio che ci piaceva e che ci ha veramente interessato. Qualcosa che ci fa piacere continuare a portare avanti.”

Dopo 22 anni quanto è ancora necessario avere il Florence Queer Festival? Trovate che il mercato sia stato cambiato o stia cambiando anche grazie a questa iniziativa?

Magini: “Sicuramente il mercato è cambiato, la rappresentazione è cambiata. Io mi ricordo perfettamente la serie tv che ha mostrato il primo bacio omosessuale in un pomeriggio su Italia Uno. Quindi, di fatto, questo è assolutamente mutato. Il motivo per cui il Florence Queer Festival è estremamente necessario è perché queste narrazioni poi tendono a essere gestite da altre soggettività… ammansite o comunque strumentalizzate. Avere un festival che è organizzato da persone che fanno parte della comunità e la vivono in una maniera di attivismo permette di avere un controllo anche sul tipo di narrazioni che vengono presentate e rese pubbliche. È ovvio che ci sono sensibilità diverse e, ovviamente, conoscenze diverse. Ad esempio, abbiamo visto ieri un film che a una persona HIV positiva aveva dato determinate sensazioni che a me non aveva dato. Quindi questo confronto è comunque fondamentale per rappresentare delle narrazioni che siano il più possibile veritiere. Il confronto è ancora necessario.”

Queer Animation

Quanta apertura c’è, in Europa, verso le tematiche LGBTQI+ nei prodotti animati?

Guccinelli: “L‘animazione europea arriva di riflesso rispetto alla nascita del grande alveo pop mainstream animato statunitense. Quindi è un modello, quello statunitense, con cui ci si deve confrontare. È un modello da cui anche l’animazione mainstream europea ha un enorme debito, anche dal punto di vista della “genetica” del prodotto. Abbiamo delle produzioni, anche in Italia, che in qualche modo si sono scostate. Dei prodotti che, pur avendo un’ampia diffusione, in Italia hanno espresso un’autorialità particolare. Penso alle produzioni anche anni ’70 di Bruno Bozzetto, per esempio. Ma dal punto di vista delle tematiche queer i modelli, quelli europei dell’animazione tradizionale, sono quelli statunitensi, perché sono quelli disneyani. Quindi in realtà la modalità con cui i personaggi e le storie sono raccontate sono con le modalità dell’animazione disneyana-statunitense.

Quando parlo di animazione disneyana-statunitense non mi riferisco soltanto a quella con marchio registrato Disney, ma penso anche a tutta quell’animazione che in qualche modo ne è figlia. Parlo dei prodotti di Don Bluth e Gary Goldman, per esempio, oppure con Steven Spielberg come Fievel sbarca in America, eccetera. Si parla sempre di un’animazione che, nonostante non sia copyright Disney, comunque è figlia di quel tipo di animazione. Se si parla di mainstream, si parte sempre dal coding disneyano. Tra l’altro le scuole di animazione spiegano un tipo di animazione prevalentemente statunitense. Ad esempio l’animazione gender specific, legata alla gestualità e all’espressione di genere dei personaggi. Movimenti “aperti” maschili, movimenti “chiusi” femminili… Quindi dove collochiamo il personaggio queer? Di solito lo collochiamo nei villain femminilizzati e non ci si discosta da questo preconcetto culturale.”

Rapporto tra queerness e corpi: quanto vanno di pari passo la rappresentazione queer e quella dei corpi non conformi all’interno dell’animazione moderna mainstream e autoriale?

Guccinelli: “Partiamo da quella autoriale. Vi sono esempi di registe e registi che mettono in scena tipi di rappresentazione differenti, inusuali, atipici, in cui si legano queerness, corpi e identità non conformi. L’Amour Libre, per esempio,  I Am Chuma… tutti dei prodotti di nicchia che cercano di legare la questione queer transfemminista anche alla rappresentazione di identità e corpi non conformi. Corpi grassi, per esempio, o corpi disabili, identità neuro atipiche… cosa che, passando all’alveo più pop mainstream, non accade quasi mai. O, almeno, non accadeva quasi mai. Fino ai primi anni 2000 nella rappresentazione queer era difficilissimo che ci si occupasse di rappresentare, salvo villain, corpi non conformi. Guardiamo Ursula, per esempio. Ma anche l’esempio di Scar che, nonostante sia un leone magro, è un leone serpentiforme, in qualche modo quindi diverso dagli altri leoni “cubici” come Mufasa.

I corpi non conformi sono legati a personaggi dalle brame e gli appetiti mai saziati. Quindi mi viene in mente Ratcliffe di Pocahontas, mi viene in mente la tradizione, per esempio, delle iene de Il Re Leone, che hanno infatti nello studio della character art pancia e gobba che rimandano a un agire nascosto e una brama di accumulo. Sicuramente abbiamo oggi un’apertura. Guardiamo alcune serie tv quali Steven Universe, ma andando anche al remake di She-Ra, per esempio. In quel caso abbiamo in scena dei personaggi dai ruoli importanti che vestono corpi non conformi o corpi disabili. Ma è ancora molto ridotta questa prassi nell’opera mainstream, soprattutto perché viene dato molto risalto a quello che è l’immedesimazione dello spettatore o della spettatrice standard. E molto spesso sono i corpi che continuano a vendere, che aiutano l’economia del prodotto. Cioè sono quei corpi che devono essere, per gli standard tradizionali, appetibili. E quindi è molto difficile che tutto questo indotto economico si leghi a una rappresentazione della non conformità.”

Tokenizzazione, queer baiting e sessualizzazione

La sottile linea tra token e rappresentazione: l’eterno conflitto con lo spettro di una forzatura narrativa. Qual è il modo per rendere una rappresentazione queer più “organica” e non percepita come “costringente”?

Guccinelli: “Alcune questioni hanno a che fare con lo storytelling del prodotto, altre hanno a che fare meta-narrativamente con la produzione del prodotto. Partiamo da questa. Quando un prodotto nasce e vuole parlare di identità atipiche o non conformi, trovo che debba coinvolgere persone che possono rappresentare quell’identità perché le vivono. Altrimenti sembrano quei contesti in cui troviamo i talk show con cinque maschi che parlano di aborto. Quindi mi piace, allora, che il primo passo sia quello. In un prodotto mainstream la cosa che mi interessa è capire se, effettivamente, per parlare di quelle realtà siano state coinvolte persone che le vivono. Ed è quello che mi ha spinto a criticare molto anche della serie Mercoledì. In realtà i vecchi Addams erano realmente personaggi non conformi. I nuovi Addams, no. Soprattutto Mercoledì, che è un personaggio da una fisicità estremamente conforme, che può decidere di performare il mostro o meno.

Secondo punto: quanto questa dinamica identitaria aiuta lo storytelling del prodotto. Perché se noto che questa dinamica aiuti a raccontare l’universo narrativo di quel prodotto, allora vedo un rischio minore di tokenizzazione. Laddove invece vedo identità buttate a caso, senza che ci sia da un lato il coinvolgimento delle comunità coinvolte e, dall’altro, il dovuto approfondimento del personaggio, allora non vedo come quel prodotto possa darmi un avanzamento culturale.”

Parliamo ora di “queer baiting. In alcuni casi è palese che la colpa sia della produzione, quando il sottotesto è chiaro come in Luca della Pixar, ma mai esplicitato. In altri si può dire che si tratta di una zona grigia, come in Frozen? Quanto, allora, è colpa del film e quanto del fandom che ha, giustamente, fame di rappresentazione queer?

Guccinelli: “Non lo so, nel senso che questa domanda è molto complessa e a cui mi piacerebbe restituire complessità. Il rapporto fra prodotto e fanbase è un prodotto sempre complesso. Però, così come per Luca ci sono i sirenetti, così per Frozen c’è un sottotesto narrativo. Mi ricordo quando facevo prima accoglienza e attività nelle associazioni queer. Spesso quando si facevano gli incontri si parlava anche insieme a psicologi e psicologhe di questioni legate all’identità. C’era un modello che mi ritorna sempre in mente sul coming out e quindi sulle fasi di questo. In realtà la storia di Elsa, soprattutto nel primo Frozen, sembra proprio seguire esattamente il modello del coming out identitario: il rifiuto, la fase in cui fai coming out e sei solo quello, la fase in cui poi capisci che sei anche quello. Questo l’ho visto proprio come se fosse un po’ una mise en abyme di questa pratica.”

Ultima domanda, che in realtà trascende l’animazione. Iper-sessualizzazione: quanto influisce, secondo lei, nella percezione che il pubblico ha della comunità?

Guccinelli: “Penso ai modelli anni ’90 e alle prime testimonianze di personaggi queer all’interno del mondo delle serie tv. Penso per esempio a Buffy, penso a Will e Grace. Serie in cui spesso l’iper-sessualizzazione era legata da una parte allo sdoganamento di certi comportamenti sessuali. Dall’altra sicuramente c’era una componente di fanservice importante. Questo rispondeva a una logica intrinseca molto importante di male gaze, quindi l’occhio maschile che, come l’occhio di Sauron, vede tutto e vuole proprio un appagamento estetico e sessuale. Da una parte l’iper-sessualizzazione ha un valore nel momento in cui decostruisce dei tabù, dall’altra è una rappresentazione tragica. Se si tratta di far emergere alcune identità, come per esempio quella asessuale, non hanno quasi rappresentazione. Quindi l’iper-sessualizzazione può andare nella direzione dello sdoganamento di tutte le identità allosessuali, ma non di tutte le identità che hanno a che fare con lo spettro di identità asessuali e aromantiche. Non voglio essere bacchettone, ci mancherebbe altro. Però voglio anche restituire la natura di arma a doppio taglio che può avere una pervasività di contenuti che abbiano a che fare con la sessualizzazione.

Spesso, tra l’altro, questo fenomeno è estraneo alla logica del consenso. Spesso prodotti che hanno a che fare con una forte sessualizzazione sono prodotti in cui non sempre è curato l’aspetto legato alla prossemica dei personaggi e al consenso o meno di entrare all’interno di una sfera intima. Ci sono purtroppo dei prodotti in cui si sdogana il “provarci in maniera violenta”, in maniera invasiva. Mi viene in mente Hazbin Hotel. Un prodotto che si dice queer e che vuole legarsi a una logica transfemminista non può prescindere anche da una rappresentazione corretta di quello che è il consenso. E molto spesso, invece, c’è una normalizzazione del possesso. O per esempio una logica legata alla normalità della gelosia. Questo, secondo me, dal punto di vista dei modelli che vengono comunicati è molto rischioso.”

Il Florence Queer Festival chiude la sua ventiduesima edizione, ma la direzione pensa già al futuro. Un futuro sempre fatto di comunità, rappresentazione, collaborazione e media storytelling.

Se volete approfondire il festival leggete anche la nostra intervista a Nicola Bellucci, regista di Quir, mostrato al FQF 2024!

Editing Giulia Radice.