Presentato fuori concorso al 42° Torino Film Festival, The Rule of Jenny Pen è un thriller a tinte simil-horror di provenienza neozelandese, con un cast d’eccezione composto dai leggendari Geoffrey Rush e John Lithgow. Alla regia troviamo il regista neozelandese James Ashcroft, qui alla sua opera seconda.
La trama di The Rule of Jenny Pen
Il film racconta di Stefan Mortensen (Geoffrey Rush), un giudice misantropo che, dopo essere stato colpito da un ictus, viene ricoverato in una casa di riposo dove Dave Crealy (John Lithgow) terrorizza da tempo gli altri residenti assieme alla sua bambola Jenny Pen. Tra i due inizierà una guerra psicologica dove solo il più ferreo mentalmente sopravviverà.
La brodaglia dell’ospizio
Il tema del potere e del suo utilizzo non è più nuovo al racconto cinematografico da diversi decenni oramai, e le sue variazioni e dispersioni sono innumerevoli. In questa pellicola, tratta da un racconto di Owen Marshall, si cerca di sviluppare la nascita ed il mantenimento di una piccola dittatura in un ambiente raramente trattato, la realtà delle case di cura per anziani.
Nonostante un presupposto incuriosente dovuto anche alla scelta del definirsi più un thriller che altro, The Rule of Jenny Pen non riesce a dar seguito e valore a quelle valide ambizioni su cui va a fondarsi. La regia (e sceneggiatura) di James Ashcroft risultano troppo pigri e poco ispirati, incespicanti anche nella direzione che il film sceglie pian piano di seguire.
Nei primi attimi cerca di tenere una drammaticità alla Amour di Michael Haneke, poi sguscia rapidamente (e maldestramente) verso il genere thriller tanto ricercato da Ashcroft, miscelandosi in maniera confusa a qualche tocco horror, sostenuto dalla bipolare fotografia di Matt Henley, che non stupisce granché.
Occhio per occhio, dentiera per dentiera
Forse il passo più errato che l’opera commette è il dare totale rilevanza al solo conflitto dei due protagonisti, ottimamente interpretati da due colossi della recitazione come Rush e Lithgow, ma che li isola totalmente da alcuna (e realisticamente dovuta) interferenza esterna che sia dello staff della casa o anche degli ospiti stessi.
Così facendo, l’elemento thriller si va pian piano a perdere, così come il ritmo non proprio incalzante del film, le motivazioni dei suoi personaggi e la ragion d’essere del lungometraggio stesso, confinata in una blanda analisi del esercizio folle del potere e di soluzioni relative ad esso alquanto discutibili.
Un vero peccato, per un film con alcuni elementi visivi validi e coinvolgenti, ma che non trova valore se non nell’essere solo apparentemente un piccolo unicum del suo genere cinematografico.